giovedì 30 aprile 2009

I pannni sporchi NON si lavano in famiglia

Chi siamo è un po’ difficile, ma è presto detto.

Con o senza tessera, siamo tutti piuttosto stanchi di essere stanchi di stare a guardare. Siamo una neonata banda di burattini e burattinai che quando maturano un pensiero collettivo al termine di una discussione, non lo tengono per sé, ma lo dicono in pubblico firmandosi con nome e cognome. Forti come voleva don Sturzo non so, ma certo abbastanza liberi per respingere il vecchio slogan che consigliava caldamente di lavare in famiglia i panni sporchi.

E no. In quelle famiglie si confezionano dal retrobottega le doppie verità: quelle che tutti possono e debbono sapere sono ben separate da quelle che molti è meglio che non le sappiano perché rischiano di capire all’incontrario e rischiamo di perdere il loro consenso. In questo modo si gettano le basi delle élites, dei potentati locali, dei notabilati che amministrano il potere dando una cosa a te e tu in cambio dai una cosa a me. Per carità, niente di illegale, ma è l’inaridimento della politica, il trionfo dell’immagine sulla sostanza, del superfluo sul necessario. Le attuali istituzioni respingono la gente, la allontanano, la dissuadono dal partecipare. Il cittadino è considerato come portatore di consensi da sottoporre a interventi di periodica manutenzione ordinaria o straordinaria, non come un soggetto che può concorrere con il suo pensiero e la sua azione alla gestione della cosa pubblica. Su questa strada ci ha incamminato il centrodestra. Però il cavaliere ha fatto proseliti a sinistra che la metà bastano. Invece, la migliore educazione alla vita politica è la partecipazione attiva. E cittadino è colui che è capace di governare e di essere governato.

Poiché scommettiamo sulla fiducia nell’intelligenza dei frequentatori di questo blog, non smetteremo di tramare in pubblico per sollecitare pensiero, azione, ricerca, nuove relazioni libere e solidali, iniziative concrete per democratizzare e migliorare la vita quotidiana. Pertanto non avremo paura di collaborare o di criticare, a seconda delle convinzioni che liberamente matureremo di volta in volta. Utilizzeremo le meravigliose possibilità di veloce circolazione d’aria fresca e di ricambio di idee offerteci dal giro dell’elettronica.

Non pretendiamo di moralizzare e bonificare la vita pubblica con la nostra parola, il nostro esempio o il nostro pugno sul tavolo. Nessuno di noi ha compiuto la “conversione dei cuori” o la “rivoluzione delle coscienze” di cui parlano i cristiani. E nessuno di noi sogna di possedere le virtù dell’”uomo nuovo” vagheggiate dai giacobini o dai comunisti che presero il potere nella Russia del ’17. Per fortuna. Non è uno svantaggio.

Abbiamo le nostre brave colpe da espiare. Appunto: vedrete che lo sapremo fare rifiutando di lavare in famiglia i panni sporchi. Anzi, li metteremo in piazza e li stenderemo pure.

E’ un desiderio di partecipazione costruttiva e libera a muoverci. Non un “imperativo etico”, ma un “imperativo eretico”, cioè il dovere di scegliere nel pluralismo. Io non sono sicuro che ciò in cui credo sia l’unica cosa vera. Forse è vero anche quello che pensa un altro. Il quale magari ha idee contrarie alle mie e io stesso domani potrei cambiare idea. Il dovere di scegliere in una situazione di incertezza permanente ti può portare all’indifferenza del senso cinico che travolge il senso civico, per dirla con Ilvo Diamanti. Ma ti può anche liberare creativamente verso continenti ricchi di relazioni non assillate da mediocri competizioni o da gare avide e avare per l’egemonia. Vedere in tutti la goccia di verità che può rispettare il mio torto di oggi, aiuta l’efficacia dell’azione perché la fonda sul concorso degli altri e si congeda da una malintesa centralità del proprio protagonismo. Siamo sempre lì: comandare obbedendo, camminare domandando, lavorare pensando. Con il tempo, dal basso e con gli altri.