domenica 1 novembre 2020

ANCORA SUI 35 GIORNI


Come mai Novelli, Revelli e Rinaldini non si stancano di precisare che il 14 ottobre a Torino non erano 40mila, ma 15mila o al massimo 25mila? Nella Torino del 1980 la sinistra degli amministratori, quella del sindacato, quella antagonista erano lacerate da numerose polemiche, ma a 40 anni di distanza – e non è un caso - si trovano unanimi nel rimuovere un dato scomodo: la sconfitta nacque anche dal fatto che, anche tutte insieme, quelle sinistre avevano perduto la rappresentatività della maggioranza degli operai.

I dirigenti sindacali vennero a indorarci la pillola e impiegarono 15 anni a riconoscere che quella fu una sconfitta al termine di una stagione di avanzate sociali. Nel 1994 Bruno Trentin scrisse che “ogni accordo esiste per come è vissuto dalla gente. E se l’accordo è vissuto come una sconfitta, anche se è stato approvato da un’assemblea, diventa due volte una sconfitta”. Franco Bentivogli vide che “c’era una realtà umana che aveva percepito in modo drammatico il destino che la attendeva, e non poteva cantare vittoria...un mondo gli crollava addosso”.

Già, ma da dove veniva quella sconfitta? I “duemila polacchi” - come li definì Salvatore Tropea - che resistevano ai cancelli furono orgogliosamente liberi di non piegare il loro pensiero ai comandi aziendali, ma rimasero prigionieri di una coerenza che impedì loro di riconoscere che non rappresentavano la maggioranza dei lavoratori. Anzi, da loro si erano progressivamente isolati. Ricordo la vergogna che provammo quando vedemmo arrivare i delegati delle fabbriche emiliano-romagnole chiamati a irrobustire presidi sempre più deboli perché sguarniti di operai e di delegati piemontesi. L’indebolimento della rappresentatività dei Consigli aveva origine in una loro crescente burocratizzazione.  I delegati  “sempre in permesso sindacale” si erano trasformati in un ceto politico indipendente che li faceva assomigliare troppo alle vecchie Commissioni Interne: avevano perso la capacità di dialogo e di unità da cui erano nati tanti contratti che noi gruppettari chiamavamo contratti bidone o giù di lì. Compromessi, cedimenti, mediazioni al ribasso eccetera.

Ci restavano gli sguardi ringhiosi ai picchetti, ma non ci chiedevamo quale solidarietà o comprensione potevamo ottenere dai torinesi che ai blocchi stradali dovevano fare un giro più lungo per andare al lavoro, a scuola, in ospedale, al supermercato o in palestra.

Certo che poteva andare a finire diversamente. Il giorno dopo l’accordo si poteva opporre il voto contrario delle assemblee all’intervento delle forze dell’ordine per rimuovere i presidi manu militari. Ne sarebbe nata una giornata memorabile di scontri, botte, arresti, sangue e forse peggio. Ma non una nuova corso Traiano, perché chi era partito da casa aveva messo il baracchino nella borsa. Era finita. Era finita. 


Mario Dellacqua 

lunedì 12 ottobre 2020

BLOCCARE IL TRAFFICO O SAPERE DOVE ANDARE DA FRANCESCO PICCOLO A ROSSANA ROSSANDA, BERSANI, RENZI, CALENDA E BENTIVOGLI



Primo passo: gli avvenimenti del mondo capitano come se tu vivessi in un altro pianeta: li guardi in tv, nella certezza che tu non c’entri niente. Secondo passo: le tragedie e gli slanci dell’umanità ti capitano tra i piedi e non puoi più fare come Don Abbondio che proseguiva il suo cammino “guardando a terra e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero”. Terzo passo: ci finisci casualmente dentro fino al collo, foss’anche per il gusto adolescenziale di fare il tifo per Davide che umilia Golia in una partita di calcio. Una volta valicati i confini dell’indifferenza, Francesco Piccolo, autore di un bel libro di anni fa, non riesce più a tirarsene fuori. Il delitto Moro, la scala mobile, la morte di Berlinguer, l’ascesa di Berlusconi, la fine traumatica del primo governo Prodi diventano le tappe del viaggio educativo che negli ultimi 40 anni scorrono come un fiume sotterraneo accanto alle ordinarie anomalie della sua vita privata: il giovanotto diventa comunista, ma riesce a dire che il libro della Cederna sul Presidente Leone è una mascalzonata confidandosi con suo padre di destra, non con sua madre iscritta al partito. E poi zii, amici e fidanzate arrivano a interloquire e si sovrappongono nel suggerire, condizionare, imporre, defilarsi, ricomparire.

Dalla mia parte il bene, dall’altra il male. Di qua l’onestà, di là la corruzione. Di qua la cultura, di là l’ignoranza. Di qua Berlinguer con la sua diversità, di là Craxi con la sua arroganza del potere. E subito dopo, di qua Berlusconi, non il Presidente del Consiglio cui contrapporre il programma di uno schieramento alternativo, ma l’uomo di plastica, il manipolatore televisivo degli ingenui, il trafficante miliardario, il barzellettiere nano, il puttaniere. Di qua la straziante disperazione degli orfani di Berlinguer in attesa di un leader, aggrappati al mito della loro diversità che non tollera compromessi.
Francesco Piccolo, in “Il desiderio di essere come tutti”, prima racconta che il mito della diversità è solo una maschera a protezione della nostra inadeguatezza, della nostra fragilità e dei nostri fallimenti maturati con errori attribuiti ad altri per comodità e pigrizia. Dietro la baldanza e l’intransigenza di quella maschera, si nasconde il desiderio che qualcuno ti rassicuri pensando per te: la mamma, il Sindaco, il Papa, la madonna, la televisione. Meglio ancora vantarsi di essere ignoranti: ciò prepara la famigliarità con la violenza, somministrata in dosi progressive e in una dimensione dimenticabile o accettabile se non azzerabile.
Piccolo, poi propone un’altra riflessione. Quel desiderio nasce nei duri che covano il sottile desiderio di trovare un modus vivendi con gli altri. E cresce con il rifiuto di pensarsi come diversi e superiori. E’ l’abbandono del linguaggio confortante della battuta che deride e disprezza. E’ la ricerca di argomenti, strategie, programmi, modelli organizzativi da sperimentare. Nel primo caso, al centro sta la politica con l’etica della responsabilità. Nel secondo caso, è al comando l’etica dei principi inamovibili. Dove, al centro c’è la morale, ovvero il modo più irresponsabile di dissipare la propria purezza. Dove la virtù della coerenza si confonde con quella del pappagallo (che ripete sempre) o del sonnambulo (che si muove nella notte senza accorgersi che il mondo è cambiato).
Si tratta di scegliere fra una politica inclusiva che è curiosa delle contaminazioni, o una politica esclusiva, riservata a chi è convinto di poter cambiare il mondo senza cambiare se stessi e che si trincera nella ridotta delle proprie certezze incomunicanti. E ritiene il dialogo una forma di cedimento alle tesi altrui.
Non è un grande obiettivo andare in bicicletta per il gusto estetico di dimostrare la nostra capacità di creare più difficoltà a quel traffico asfissiante. Ci interessa pedalare perché abbiamo scelto dove andare, fuori dal traffico!
Ma la direzione resta oggi ancora troppo incerta. Ad esempio, l’area che in questi giorni rende omaggio al pensiero di Rossana Rossanda che propugnava radicali revisioni, sembra pedalare in una palude. Aveva ragione per la Budapest del ‘56 e per Praga del ‘68. Aveva ragione quando vide nella contestazione giovanile e operaia del ‘68-‘69 una voglia di protagonismo da cui il movimento sindacale doveva lasciarsi attraversare. Aveva ragione quando rifiutò di vedere nella galassia turbolenta del ‘77 non solo un diciannovismo (che pure c’era) da contrastare, ma una critica della politica che stava abbandonando il terreno dell’emancipazione per trasferirsi negli spazi attraenti dove si pensa solo ad esercitare il potere. Aveva ragione nel sostenere il referendum sulla scala mobile (secondo me, no). Aveva ragione nell’avversare la liquidazione del Pci.
• Ma perché quell’area, in gran parte di sinistra, rimase frastagliata?
• Perchè fallì tutte le volte che poteva darsi una strumentazione unitaria capace di allestire una convivenza delle differenze?
• Perchè riprodusse in piccolo le degenerazioni burocratiche e carrieristiche da cui diceva di voler fuggire inorridita?
Nessuna risposta è finora pervenuta! 


Mario Dellacqua


– Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Einaudi, 2013, p. 264.







giovedì 1 ottobre 2020

MIMMO LUCANO, IL FUORILEGGE




Con un pugno chiuso sotto il mento che tiene su la testa, quasi a voler costringere gli occhi a guardare in alto e lontano, in direzione ostinata e contraria, la foto di copertina anticipa il racconto della vicenda umana e politica del “fuorilegge”, il Sindaco di Riace dal 2004 al 2018 estromesso dal suo incarico dopo un calvario di inchieste giudiziarie. Quella di Mimmo Lucano è “la lunga battaglia di un uomo solo” che ha scelto di sfidare solitudine e incomprensioni mettendo a repentaglio la maturità degli anni migliori per rispondere agli interrogativi della “grande migrazione globale” nella sua terra cosparsa di profumi, ma anche insanguinata dalla ‘ndrangheta.

Con Mimmo Lucano, il potere giudiziario, politico e amministrativo le ha tentate tutte con un puntiglio spietato e degno di miglior causa. Prima arrivarono gli avvisi di garanzia per il rilascio di carte d’identità a una madre eritrea e al suo bimbo di sette giorni. Poi comparvero gli arresti domiciliari seguiti dal divieto di dimora. Furono disposte ispezioni che accertavano l’inagibilità dei ricoveri per gli asini addetti alla raccolta differenziata dei rifiuti nelle stradette dove nessun veicolo può passare. Venne contestato l’incarico affidato a due cooperative non iscritte all’albo regionale. Il senatore Maurizio Gasparri caldeggiò in un’interrogazione parlamentare l’allontanamento dagli schermi della RAI di uno sceneggiato che con Beppe Fiorello rischiava di popolarizzare i successi di un esperimento di integrazione volto anche a contrastare lo spopolamento dei piccoli centri nelle aree interne. Mentre arrivava perfino la solidarietà di Papa Francesco, i riconoscimenti internazionali accrescevano il prestigio del Sindaco e la dignità di Riace.

L’esperimento – per alcuni osservatori addirittura un modello - andava soffocato a tutti i costi perchè funzionava e usava le risorse riservate agli Sprar per far rinascere una comunità nel lavoro, non per assistere nell’inedia gli emarginati italiani e stranieri. Così il ritardo dei fondi già stanziati a Roma metteva in difficoltà il respiro dell’economia locale: i laboratori artigianali del vetro, della ceramica e del legno, il turismo solidale, la taverna, il frantoio, la fattoria didattica, una rinata scuola elementare dove si incrociava una babele di lingue, i primi lavori per curare il dissesto idrogeologico del territorio, gli interventi per sottrarre l’acqua alla gestione delle multinazionali e conquistare tariffe meno esorbitanti per i cittadini e meno onerose per le casse del Comune. I bonus messi in circolazione con l’immagine di Gandhi e Guevara per tenere in vita l’economia delle botteghe incappavano fatalmente nel divieto di battere moneta: un rimedio ideato dal Comune per riparare una disfunzione dello Stato, dallo Stato medesimo veniva disattivato.

Ma la malinconia di Lucano convive con una tormentata tenacia. Di lui si potrebbe oggi dire quello che Giorgio Bocca scrisse nel 1992 per commentare la parabola di Peppe Lavorato, dal 1994 al 2003 il sindaco comunista della stessa Rosarno che nel 2018 avrebbe eletto senatore Matteo Salvini: “E’ questa punizione dei migliori che incontro in ogni luogo del profondo sud ad angosciarmi, questa umiliazione continua degli onesti, questo tradimento dello Stato verso i suoi cittadini migliori. E mi fa paura più della mafia. Vedere che per una politica di rapina e di scrocco si è buttato via questo patrimonio di civiltà che c’era nel Mezzogiorno, le lotte dei lavoratori, la loro solidarietà, il loro orgoglio di gente onesta”.

Peppe Lavorato in questi anni non ha mai lasciato solo Mimmo Lucano che ha trasformato in scuola per sé e in magistero per chiunque altro il suo incontro con il meglio del volontariato e della politica meridionale e italiana. Vittorio Agnoletto, Ilario Ammendolia, Natale Bianchi, Laura Boldrini, il vescovo GianCarlo Maria Bregantini, Franco Calamida, Aurelio Circosta, Domenico Congiusta, Giovanni Di Leo, Alfonso Di Stefano, Paolo Ferrero, Dino Frisullo, Rocco Gatto, Cecile Kienge, Agazio Loiero, Giovanni Maiolo, Giovanni Manoccio, Mario Oliverio, Cosimo Pazzano, Tonino Perna, Maria Ripamonti, Chiara Sasso, Pina Sgrò, Maria Spanò, Alex Zanotelli: tutta questa umanità militante e solidale è passata da Riace per “unire le sue debolezze” e “trasformarle nella forza necessaria per concretizzare un sogno”.

Ma la potenza di quel virus umano non è stata abbastanza contagiosa. Non ha finora saputo produrre quella miscela di comprensione reciproca e di alleanze necessarie per tentare la conquista del governo. Sono andate in porto altre alleanze. Il ministro Minniti stringeva mani per aprire i campi libici e commerciare motovedette. Preparava così una buona accoglienza al suo successore leghista, impegnato a restringere le aree della protezione e a ampliare quelle della clandestinità, efficaci per consegnare i migranti all’economia dello scarto tra le fauci del caporalato e della malavita nella baraccopoli di San Ferdinando.

Le accuse infamanti di concussione che hanno ferito Mimmo Lucano sono più prudentemente diventate oggi anomalie burocratiche e procedurali, “interferenze” o “opacità” che non configurano alcuna frode, alcuna ipotesi delittuosa, il benchè minimo interesse personale. Ma resta come un macigno che pesa sulle nostre spalle una politica che abbandona l’emancipazione perché si esaurisce “in un puro esercizio del potere”. E semina lo scoramento di chi dice: “tanto non cambia niente” e “la gente vota chi gli conviene”. Questa sinistra che abbiamo costruito e devastato è ancora provinciale e pigra. Non sa ancora convivere con le sue differenze che sono fisiologiche di questi tempi. Non sa fare sacrifici e manca di generosità. Si permette il lusso di affrontare il mare in tempesta ognuno con la sua barchetta e il suo fedele equipaggio, geloso delle sue avarie.

Mario Dellacqua

MIMMO LUCANO, Il fuorilegge, Feltrinelli, agosto 2020, p. 183, euro 15.

GIORGIO BOCCA, Aspra Calabria, Rubbettino, 2011, p. 74, euro 7,90.

mercoledì 9 settembre 2020

Ricordo di Massimo Bonfatti



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La scomparsa così improvvisa di Massimo Bonfatti ci lascia senza respiro. Chi l’ha conosciuto sa di aver perso un attivista instancabile, un animatore delle cause dell’ecologia e della cooperazione fra i popoli. Era sempre ribelle ad ogni forma di rassegnazione. Una generosità senza risparmio di tempo, di energie morali, di risorse intellettuali. Ogni incontro con lui ti esponeva fatalmente al rischio di non sapere come dire di no all’ultima iniziativa che aveva messo in cantiere. Poteva essere un viaggio nello spazio infido della ex Unione Sovietica. O un progetto per aiutare la Sardegna alluvionata o l’Emilia terremotata. O un evento per chiedere giustizia e verità per Giulio Regeni. O un meeting per denunciare le responsabilità del regime russo nella morte della giornalista Vera Politkovskaja.

Una specie strana e moderna di religione civile nutriva la sua chilometrica passione che aveva interamente devoluto nell’animazione di “Mondo in cammino” l’associazione con la quale, dalla sua Carmagnola, aveva deciso di spendere gli anni della sua maturità per sostenere gli obiettivi della solidarietà e della pace.

Voleva preparare il terreno a relazioni diplomatiche con una rete transnazionale di gruppi ecologisti con i quali sviluppare comuni progetti di intervento. Voleva fare la sua parte per diffondere nell'opinione pubblica italiana e europea la motivata condanna dell'energia nucleare. Voleva coniugare diritti umani, giustizia e salvaguardia dell’ambiente nel mondo e in Italia.

Non poteva essere più spontanea la sintonia con alcuni di noi nonesi che ci siamo iscritti a “Mondo in cammino” e talvolta partecipavamo alle sue iniziative, contribuendo con qualche modesto versamento nel 2103 e nel 2108. La prima collaborazione fu a metà degli anni Novanta con il “Progetto Cernobyl” di Legambiente che portò ospiti a None un gruppo di ragazzi bielorussi per un soggiorno che coinvolse anche la nostra Scuola Media.


Locale e globale nel pensiero e nell'azione, carmagnolese e internazionalista, utopico e concreto, alla guida di “Mondo in Cammino”, Bonfatti ha sempre cercato, dovunque gli capitava, complici per contribuire alla salvezza dell'umanità.

“Un'umanità - ha scritto nella prefazione al libro “Rotta nucleare” di Luca Scabbia e Ilaria Lonigro - che saprà e potrà continuare a sperare grazie all'ostinazione e alla sfida quotidiana di persone” come quelle che in Ucraina e in Kazakhstan, a Cernobyl o a Fukushima, a Hiroshima o a Nagasaky, sono “più forti delle bugie e delle falsità” fabbricate per tenere i popoli lontani dalle tentazioni della libertà e dal dovere della consapevolezza.

Un dovere che sento più urgente dopo la scomparsa così ingiusta di Massimo.

Mario DELLACQUA


domenica 30 agosto 2020

NOVELLI E I 35 GIORNI

Per contrastare la beatificazione di Cesare Romiti, nella sua intervista al “Manifesto” del 19 agosto, Diego Novelli gli attribuisce due falsificazioni. 

La prima: non furono 40mila, ma 16mila. Può darsi, ma seppe farli bastare. 16, 20 o 40mila che fossero (sono credibili i 16mila come da prima comunicazione della Questura), la loro irruzione sulla scena torinese terremotò la fase conclusiva della lunga lotta sindacale. A quel corteo partecipò un numero di lavoratori di gran lunga superiore ai “resistenti” ai presidi. Poche ore dopo quel corteo, la Procura di Torino (dott. Tinti) deliberò di “fare aprire i cancelli” per il giorno dopo, anche con l’impiego di polizia e carabinieri. Chi ricorda ancora quelle ore al primo turno?

La seconda: non è vero che Berlinguer abbia incitato gli operai a occupare la Fiat, interrogato da Liberato Norcia, uno dei leader della Fim-Cisl alle Carrozzerie di Mirafiori, che Novelli pensava fosse di Lotta Continua. Rispondendo che il Pci avrebbe appoggiato ogni forma di lotta decisa dai lavoratori con i loro sindacati, il   segretario comunista difendeva la sua sintonia con i duemila polacchi (come li chiamò Salvatore Tropea) aggrappati al sempre più debole presidio delle 32 porte di Mirafiori. Nello stesso tempo auspicava la conclusione della difficile e lunga vertenza temendo che anche il partito pagasse le conseguenze di una disfatta.  

Sapevamo tutti - dopo l’affissione da parte della Fiat dei 24.000 nominativi dei lavoratori posti unilateralmente in cassa integrazione a zero ore, in alternativa ai 14.000 licenziamenti preannunciati da Umberto Agnelli -  della non praticabilità di una lotta articolata che avrebbe dovuto “separarsi” dai 24.000, i quali si sarebbero sentiti abbandonati al loro destino! Se l’occupazione di Mirafiori e Rivalta era impensabile, la scelta dei presidi dei cancelli, dall’esterno, apparve in quei giorni non già una scelta disperata, ma obbligata, per garantire l’unità dei lavoratori. 

Era possibile un accordo diverso? Era ancora possibile salvaguardare e rispettare le decisioni dei Consigli di Fabbrica e delle assemblee dei lavoratori? Avremmo meritato una sconfitta più rispettosa e meno disonorevole, non misconosciuta dalla pantomima di un accordo già deciso, indipendentemente dall’esito del voto delle assemblee.

Ma questa storia non interessa Novelli, impegnato a dividere il movimento operaio torinese di quei 35 giorni in gruppettari isolati da un lato e Fiom, Cgil, Lama con “la barra dritta” dall’altro. Il terrorismo poi non c’entra. Durante i 35 giorni quell’ordine di monaci combattenti aveva deciso di osservare un religioso silenzio.

Uscire dal coro degli elogi, fino al limite delle adulazioni, andare controcorrente è un valore in sé per il pluralismo, purchè non si incorra in gravi omissis. 

Diego Novelli nella sua intervista insiste nel “demolire” Romiti come persona per rendere più semplice la delegittimazione del suo ruolo e delle sue idee. Per Piero Fassino, la liquidazione avviene con una fredda battuta di mezza riga che gli nega addirittura la maturità. 

A distanza di molti anni, avendo più elementi  di valutazione, chi è stato al centro di quegli avvenimenti drammatici, anche pagandone le conseguenze, come lo stesso Novelli, dovrebbe chiedersi se l’esito di quella lotta finita male non abbia annunciato anche il declino della stagione delle Giunte di sinistra.  

Mario Dellacqua



mercoledì 26 agosto 2020

C'È CHI DICE NO

Il prossimo 20 e 21 Settembre saremo chiamati alle urne per il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari. La riforma, se confermata, prevede una riduzione dei deputati da 630 a 400 e da 315 senatori a 200. La motivazione? Semplice, ridurre i costi della politica. Con questa riforma si dovrebbero risparmiare 57 milioni di euro all'anno. Inutile sottolineare per l'ennesima volta che si tratterebbe di un risparmio irrisorio se si pensa alla spesa pubblica e ai costi della burocrazia (nel 2018 i fondi stanziati per la pubblica amministrazione sono stati 100,2 miliardi di euro, per intenderci la riforma consentirebbe un risparmio inferiore a 6 centesimi su 100 euro di spesa). Tradotto per il contribuente, il risparmio equivarrebbe ad un caffè all’anno per ogni cittadino. Chi vorrà vedere scorrere il sangue dei politici o chi vuole far credere che la politica sia una cosa sporca e che non ci sia speranza per essa non vorrà sentire ragioni e qualsiasi risparmio ai suoi occhi sarà un'occasione più che ghiotta per far cadere la ghigliottina sulla politica e farla pagare alla "casta".
Forse, più che sulle argomentazioni dei costi che sono molto opinabili in quanto non esiste alcuna certezza sul risparmio perché quello che prima veniva guadagnato da 630 persone adesso lo potrebbero guadagnare "solo" in 400 ritrovandosi più potenti, più irraggiungibili e più incontrollabili di prima, dovremmo focalizzarci su quanto questa riforma riduca la rappresentanza di interi territori e come l'apparato costituzionale dovrà essere sicuramente rivisto per garantire tutto quel sistema di pesi e contrappesi che verranno stravolti e che sono propri di qualsiasi democrazia. Questa riforma non rappresenta le aspirazioni di chi cerca la giustizia sociale, ma rafforzerà i centri di potere a cui chiedere protezione in caso di bisogno in cambio di applausi, di “mi piace” e di voti. I privilegi vanno ridotti e la corruzione può essere colpita non chiedendo - non si sa bene a chi – di “mandarli via tutti”, ma nel solo modo democratico possibile: con un’ ondata di partecipazione popolare che imponga regole capaci di dare ai cittadini il potere di scegliere chi candidare al Parlamento, nei Comuni e nelle Regioni in base a programmi chiari e a competenze documentate.
A essere danneggiate da questa riforma costituzionale sarebbero principalmente le minoranze, sia quelle territoriali, come le aree interne e le aree montane, economicamente più deboli e meno abitate, sia quelle sociali in quanto i cittadini con meno strumenti avrebbero meno possibilità di candidarsi e di entrare in una delle due Camere. Infatti, un Parlamento più piccolo garantirebbe un ricambio più difficile in quanto personaggi più conosciuti prevarrebbero su esponenti meno conosciuti, anche se più competenti.
I proponenti della riforma costituzionale dovrebbero infine spiegarci come intenderanno procedere con le ulteriori modifiche costituzionali come l’elezione del Presidente della Repubblica o come verrebbero modificati i regolamenti delle due camere visto che in alcuni articoli è previsto un numero preciso di parlamentari per presentare mozioni e interrogazioni. Senza considerare che non è mai stato chiarito come verrebbero investiti i 57 milioni di euro risparmiati. Su tutto questo è calato un silenzio inaccettabile.
La democrazia ci serve come l’aria. Corruzione, privilegi, passività, ignoranza e disuguaglianze sono le malattie che ci soffocano e non ci lasciano respirare. Se non sapremo permetterci il lusso di rinnovare la vita democratica alimenteremo solamente le oligarchie creando una “casta” più piccola e più potente.
Il Parlamento è il cuore della nostra democrazia e una qualsiasi riforma che modifichi il modo in cui eleggiamo i nostri rappresentanti dovrebbe essere ampiamente discussa. Bisognerà difendere la nostra Costituzione il prossimo 20 e 21 Settembre altrimenti il costo di quel famoso caffè potrebbe essere molto, ma molto caro.


Federico Ciaffi
Mario Dellacqua
Federico Dal Zilio
Giuseppe Neri
Gregorio Codispoti
Nello Petrossi
Domenico Demuro
Matteo Cavallone
Riccardo Tassone
Kenan Kukuljac
Caterina Renna
Stefano Ciaffi
Luisella Gallegati
Alessia Marchetti
Ilenia Morlino
Francesco Schmidt
Pietro Falletto
Gian Paolo Dal Zilio
Maria Dalmasso
Ignazio Drago
Francesco Romeo
Simone Machioni
Luca Zecchi
Andrea Pennacchio
Simone D’Angelo
Niccolò Borsetto
Mattia Scalas
Michele Da Re
Alessandro Reineri
Giuseppe Noto
Maria Luigia Tommaciello
Silvia Regis
Riccardo Casaro
Lorenzo Pulie Repetto
Francesca Latiana

lunedì 1 giugno 2020

Con l'ultimo versamento a favore di "MEDICI SENZA FRONTIERE" Fondazione Orso e Festainrosso raggiungono il 2 giugno quota 152.594 euro. Prima e durante l’emergenza coronavirus la Fondazione Orso ha fornito pasti preparati dalla Residenza San Giovanni e dalla ditta Ladisa a famiglie nonesi bisognose per 348 euro. Si forniscono questi aggiornamenti per doverosa informazione di compagni, amici e concittadini. Si conferma la disponibilità ad accettare suggerimenti, proposte e nuove idee, purchè accompagnate da uguale offerta di impegno e responsabilità. Si ringraziano gli amici che hanno contribuito con versamenti di ogni entità.

sabato 30 maggio 2020

TINTURE DI ODIO

Come opporsi ai fenomeni distinti ma non distanti (anzi complementari) dell’ostilità per lo straniero e della rivalutazione del ventennio fascista in nome dell’obiettività apolitica? Gli uni dicono che il fascismo ha fatto anche cose buone e il vero nemico caso mai è la sostituzione etnica della nostra manodopera con forza lavoro islamica e africana a prezzi stracciati. Gli altri dicono che “loro” ci rubano il lavoro, mangiano senza lavorare, sono perseguitati per finta e “noi”, al massimo, possiamo dividere il benessere conquistato solo se avanza qualcosa.
Sono due galassie turbolente e travolgenti: quando si tratta di spiegare le loro alleanze, la sinistra tira fuori l’ignoranza, i complotti dei poteri forti, il dominio diabolico dei mass media. E’ la grande rimozione, preludio dei peggiori autoinganni che si accontentano di sostituire un conflitto sociopolitico con una pulsione da condannare o una spinta etica da incoraggiare. Prendere sul serio e indagare le ragioni del fascino esercitato dalle ideologie del sovranismo su strati così ampi delle classi subalterne, non è un modo per concedergli attendibilità e legittimazione. E’ il presupposto per combatterlo efficacemente.  Parafrasando un Togliatti degli anni ‘30, “non possiamo semplicemente mandarli al diavolo”. Esattamente come, per comprendere il fascismo, dobbiamo esplorare l’impasto ideologico di cui è fabbricata la sua personalità: culto del capo, mito della patria, della giovinezza, della virilità, dell’eroismo, disprezzo dell’individualismo e degli intellettuali, missione purificatrice e educatrice della violenza e della guerra, gerarchia, cameratismo. Persino l’Italia colta che portava la cimice all’occhiello era fatta di silenzi, accomodamenti e dignità sacrificate, ma anche di entusiasmi sinceri per l’uomo nuovo portatore di rigenerazione morale e di civiltà. 
Se  - anche oggi - la diagnosi riduce tutto ad una devastante malattia di inganni, addio alla prognosi. Non aveva già cominciato Berlusconi a definire la sua Forza Italia partito dell’amore contro la sinistra dell’odio e dell’invidia sociale? Sempre potremo dire che “la virtù è patrimonio dei coglioni”. Già nel 1821 lo sentenziava il glaciale disincanto di Leopardi: “la soddisfazione dei desideri degli uni” comporta “il male” e “l’infelicità” degli altri. Anzi, “lo spirito della legge Giudaica non solo non conteneva l’amore, ma l’odio verso chiunque non era Giudeo” e con “il precetto diliges proximum tuum sicut te ipsum s’intendeva non già i tuoi simili, ma i tuoi connazionali”. 
Gli ideali della libertà e della giustizia sociale non tramontano mai. Ci sono delle stagioni in cui avanzano o indietreggiano, vincono, pareggiano o perdono. L’esito della partita dipende dalla qualità delle intelligenze e dall’estensione delle energie democratiche coalizzate che l’umanità sa schierare nel mutare dei contesti. Stracciarsi le vesti per la caduta di ideali, valori, utopie sociali o religiose è un finto (e noioso) esercizio di realismo che nasconde il rassegnato abbandono della contesa.
Veltroni non vuole assecondare questa deriva. L’ex segretario del Pd è ottimista, anche se sa che negli anni ‘70 l’odio è stato propellente di militanza politica. Non crede che tutta l’Italia coincida con le ripugnanti fazioni desiderose di “asfaltarsi” reciprocamente sulle pagine dei social (p. 22 e 78). In alternativa all’odio, Veltroni riscopre il conflitto che combina e non separa l’orgoglio di sé e l’apertura, che sa apprezzare nell’altro il frammento di verità senza la quale non saresti preparato ad un pensiero nuovo (p. 104). D’altra parte, le grandi conquiste del Novecento non sono state opera di leader carismatici, ma di milioni di uomini, donne e ragazzi di tutti i mestieri e di tutte le fedi. Veltroni lo afferma (p. 115-116), ma non approda all’idea che l’attesa e/o l’equivalente nostalgia di un leader sono incompatibili con qualsiasi ripresa della sinistra. Al massimo, si limita a misurare la sconfortante differenza fra la statura di Berlinguer, La Malfa, Craxi, Moro e la mediocrità degli attuali arrampicatori in cerca di simpatia. E depreca P2, corruzione, terrorismo, assalto alla spesa pubblica (p. 77). Non ho detto che non servono buoni leader. Dico che serve una leadership collettiva, impossibile se la società, come nel calcio, rinuncia a coltivare il suo vivaio nel partito come palestra di esperienze sociali, amministrative e culturali.
Il prof. Luciano Canfora è impegnato ad avversare la falange dei minimizzatori: la frequente comparsa di manifestazioni di simpatia per il fascismo, sia nella forma della nostalgia per i riti del ventennio, sia nella forma delle attuali imprese squadriste, quando non confinabili nella ridotta del folklore, sarebbe “un allarme immotivato e strumentale”. I pericoli per la democrazia derivano, come sostiene il prof. Emilio Gentile, non da un’aggressione esterna, ma da un lento e relativamente legale svuotamento dei poteri dei cittadini a presidio dell’uguaglianza. La chiamano “disintermediazione”. In soldoni, partiti, sindacati, enti locali sono senza poteri agli iscritti, senza visioni e programmi alternativi e riconoscibili, senza poteri contrattuali nei luoghi di lavoro, senza risorse per governare la difesa del territorio. 
Canfora non ignora i danni provocati dalla scomparsa di quei luoghi di “acculturazione civile” che erano i partiti fondatori della Repubblica, ma obietta che “nel fascismo si sprofonda per slittamenti progressivi”. Ci si può trovare sdegnati a commemorare la “difesa della razza” per naufragare nella palude del “prima gli itagliani”. Lì trovi masse “già avanti nell’isterizzazione contro il falso nemico che ci toglie il lavoro e mangia a nostre spese”. Quando il Papa ricorda che “gli odierni sovranisti parlano come Hitler nel 1934: noi, noi, noi...”, il suo intervento è circondato da uno scrupoloso silenzio.
Con un miliardo di esseri umani in più, la competizione planetaria per la spartizione delle risorse rischia di trovare una risposta convincente solo nell’invito a armarsi di odio e di armi. Una rinnovata sinistra può  indicare un’altra strada nella cooperazione strategica dei paesi dell’area euroafricana e nella gestione europea dell’emergenza dei nuovi arrivi. 
Un progetto forse utopico, dice Canfora, ma la sua alternativa è la rovina comune delle parti in lotta.
Mario Dellacqua

WALTER VELTRONI, Odiare l’odio, Rizzoli, 2020, pp. 117, euro 10.
LUCIANO CANFORA, Fermare l’odio, Laterza, pp. 66, euro 10.
EMILIO GENTILE, Fascismo. Storia e interpretazione, Corriere della sera, Laterza 2002, pp. 380, euro 8,90.
ANGELO D’ORSI, La cultura a Torino tra le due guerre, Einaudi, 2000, p. 357.
GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone, 1710-1712, in MARIO ANDREA RIGONI (a cura di), Giacomo Leopardi. La strage delle illusioni, Adelphi, 1992, pp. 314.

giovedì 21 maggio 2020

LE IMPRESE NON CE LA FANNO

Le voci delle imprese nella politica e nel giornalismo fiancheggiano chiunque punti a logorare il governo Conte lamentando ritardi, insufficienze e esclusioni nell’arrivo dei sussidi promessi a questo o a quel soggetto sociale. Ma nei colloqui che contano, alla prima occasione Confindustria mena fendenti contro la distribuzione di contributi a pioggia e contro la superficialità di troppe elargizioni assistenzialistiche. La disoccupazione non si combatte finanziando i poveri, ma finanziando le imprese, le uniche abilitate a decidere investimenti produttivi e non parassitari. 
E poi, si dice, i ceti subalterni con le loro famiglie si trovano in gran parte in una condizione che risulta dalla loro scarsa imprenditorialità, dalla loro volubile laboriosità e dalla loro stratificata propensione alla furbizia e al raggiro. Dunque, meglio indirizzare la quota maggioritaria delle risorse disponibili verso le imprese che hanno argomenti persuasivi per chiedere tutto, al mutar della temperie, ora al libero mercato, ora allo Stato. Mentre “Repubblica”, appena tornata saldamente nelle mani della famiglia Agnelli, paventa “il ritorno dello Stato imprenditore”, FCA rivolge rispettosa domanda di ottenere dal governo garanzie per 6,5 miliardi. 
Ora, è verissimo che, come già Antonio Giolitti insegnava a Riccardo Lombardi, “gli investimenti non li può fare lo Psiup”. Ma se le imprese non ce la fanno, non possono riesumare scolasticamente la socializzazione delle perdite dopo la privatizzazione dei profitti, come se la società italiana affrontasse per la prima volta l’infelicità di una simile esperienza.
In questo contesto, molto efficace è il recentissimo appello “Democratizing Work”, sottoscritto da oltre 300 ricercatori di più di 650 Università del mondo, tra cui Elisabeth Anderson, James Galbraith, Lawrence Lessig, Nadia Urbinati, Thomas Piketty, Dany Rodrik, Sarah Song. Essi escludono piani di salvataggio senza condizioni che incrementerebbero il debito pubblico senza l’avvio di politiche di democratizzazione del lavoro e di risanamento ambientale. Piuttosto “se i nostri governi si impegnano per salvare le imprese nella crisi attuale, anche queste ultime devono fare la loro parte, accettando alcune condizioni fondamentali della democrazia”. Le imprese vanno appoggiate “a condizione che queste adottino delle nuove pratiche, attenendosi a requisiti ambientali esigenti e introducendo strutture interne di governo democratico”. 
Lavoro di cittadinanza, progressività fiscale, investimenti pubblici e privati nell’economia sostenibile: questa è la trincea su cui combattere se vogliamo guarire e non ripristinare nei prossimi anni le malattie di un’economia che uccide.
Mario Dellacqua

sabato 2 maggio 2020

LA FONDAZIONE ORSO E IL COVID-19 IN KENYA



Alla Fondazione Orso è arrivato un messaggio di Andrea Bollini, Liaison Officer and Portfolio Manager di Amref.
Dopo il primo caso di Covid-19 arrivato a marzo, in Kenya la situazione è vicina alla catastrofe. I malati non possono accedere facilmente a ospedali e strutture sanitarie, i tamponi sono pochi e in tutto ci sono circa 150 terapie intensive. Non è pensabile aumentare i posti letto per i malati gravi perché non ci sarebbero abbastanza medici e infermieri capaci di assisterli. In altri paesi è ancora peggio. In Sud Sudan non c’è neanche un posto di terapia intensiva.
Coordinata con l’Organizzazione Mondiale della Sanità e con il governo del Kenya, AMREF si sta impegnando per aumentare le possibilità di accesso all’acqua pulita e ai servizi igienici: moltissime persone non possono neanche lavarsi le mani con il sapone. Inoltre, AMREF effettua tamponi e test diagnostici e dota i laboratori dei kit essenziali con mezzi propri.
Infine, la flotta aerea del Medici Volanti è schierata e operativa: viene impiegata per trasportare ed evacuare i pazienti e trasferirli in strutture sanitarie idonee.
Questa epidamia disgraziata ci ha stravolto la vita, ma ci ha fatto anche riscoprire un forte senso di solidarietà. Non esistono confini geografici quando è in ballo la salute: siamo tutti coinvolti. Ogni singolo contributo può fare la differenza.
Aderendo all’appello di AMREF, la Fondazione Orso ha versato 100 euro per l’emergenza Covid-19 in Kenya. In precedenza, la Fondazione Orso ha versato 500 euro alla Croce Verde di None per il Progetto mascherine. La Festainrosso ha versato 6mila euro agli Ospedali delle Molinette e Amedeo di Savoia con “Specchio dei tempi”. Al 1 maggio 2020, il totale è di 151.946 euro.
Si fornisce questo rendiconto per doverosa informazione dei cittadini che in tanti modi hanno aiutato e aiutano Festainrosso e Fondazione Orso. Ogni nuova idea o suggerimento per migliorare le prossime iniziative sarà ben accetta, purché accompagnata da una disponibilità all’impegno e alla cooperazione.

mercoledì 29 aprile 2020

PIU’ OSPEDALI, MENO CACCIABOMBARDIERI

In queste settimane tutta l’Italia è chiamata ad affrontare una prova di resistenza e di responsabilità senza precedenti e non immaginabile per le generazioni nate dopo la tragedia della seconda guerra mondiale.
Se vogliamo fermare il coronavirus, siamo anche chiamati a correggere le storture alla base delle più gravi difficoltà che ci affliggono: malati senza ospedali, ospedali senza medici, senza infermieri e senza impianti adeguati, cittadini senza dispositivi di protezione, anziani abbandonati, imprese a rischio di chiusura e famiglie di lavoratori e di precari a un passo dalla fame, specie nel Mezzogiorno.
Ora capiamo che cosa vuol dire chiudere ospedali, ridurre i posti letto, destinare alla sanità il 6,6% del PIL, mentre Germania e Francia investono il 9,5 e il 9,3%. Invece di colpire le troppe disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza mediante una riforma fiscale improntata a severa progressività (chi più ha più paga), si è preferito privatizzare e infierire sullo stato sociale nell’illusione che il mercato avrebbe restituito tutele più efficienti.
Ora, mentre lodiamo e sosteniamo il lavoro di medici e infermieri che non temono di rischiare la vita per gli altri alla loro prima esperienza lavorativa, consentiamo all’industria bellica di riprendere a Cameri la produzione dei cacciabombardieri F35, considerata “attività di rilevanza strategica per l’economia nazionale” e “fondamentale per far fronte alle commesse e non mettere a rischio i posti di lavoro”, come scrive il Ministro della Difesa. Si tratta di aerei che possono trasportare anche ordigni nucleari. Perché accanirsi in questa direzione? Con i soldi di un solo F35 (circa 150 milioni di euro) quanti respiratori si potrebbero acquistare?
Tutto andrà bene, se tutto non tornerà come prima. La prima svolta da conquistare sarà la riconversione dell’industria militare verso produzioni di beni e servizi orientati alla tutela della salute, dell’ambiente, dell’istruzione, della ricerca. Non alla criminale produzione di armi e di guerre che mettono a repentaglio il futuro dell’umanità.
Dobbiamo scrivere “non un manuale di economia, ma una pagina di storia”, come dice il Presidente Giuseppe Conte. E se vogliamo “correggere il nostro modello di sviluppo in direzione di un’economia sostenibile”, come chiede all’Europa il Commissario Paolo Gentiloni, questo è il momento di dimostrarlo con i fatti. Con tutta la gradualità possibile, ma con tutta la determinazione che è necessaria.
Mario Dellacqua