lunedì 12 ottobre 2020

BLOCCARE IL TRAFFICO O SAPERE DOVE ANDARE DA FRANCESCO PICCOLO A ROSSANA ROSSANDA, BERSANI, RENZI, CALENDA E BENTIVOGLI



Primo passo: gli avvenimenti del mondo capitano come se tu vivessi in un altro pianeta: li guardi in tv, nella certezza che tu non c’entri niente. Secondo passo: le tragedie e gli slanci dell’umanità ti capitano tra i piedi e non puoi più fare come Don Abbondio che proseguiva il suo cammino “guardando a terra e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero”. Terzo passo: ci finisci casualmente dentro fino al collo, foss’anche per il gusto adolescenziale di fare il tifo per Davide che umilia Golia in una partita di calcio. Una volta valicati i confini dell’indifferenza, Francesco Piccolo, autore di un bel libro di anni fa, non riesce più a tirarsene fuori. Il delitto Moro, la scala mobile, la morte di Berlinguer, l’ascesa di Berlusconi, la fine traumatica del primo governo Prodi diventano le tappe del viaggio educativo che negli ultimi 40 anni scorrono come un fiume sotterraneo accanto alle ordinarie anomalie della sua vita privata: il giovanotto diventa comunista, ma riesce a dire che il libro della Cederna sul Presidente Leone è una mascalzonata confidandosi con suo padre di destra, non con sua madre iscritta al partito. E poi zii, amici e fidanzate arrivano a interloquire e si sovrappongono nel suggerire, condizionare, imporre, defilarsi, ricomparire.

Dalla mia parte il bene, dall’altra il male. Di qua l’onestà, di là la corruzione. Di qua la cultura, di là l’ignoranza. Di qua Berlinguer con la sua diversità, di là Craxi con la sua arroganza del potere. E subito dopo, di qua Berlusconi, non il Presidente del Consiglio cui contrapporre il programma di uno schieramento alternativo, ma l’uomo di plastica, il manipolatore televisivo degli ingenui, il trafficante miliardario, il barzellettiere nano, il puttaniere. Di qua la straziante disperazione degli orfani di Berlinguer in attesa di un leader, aggrappati al mito della loro diversità che non tollera compromessi.
Francesco Piccolo, in “Il desiderio di essere come tutti”, prima racconta che il mito della diversità è solo una maschera a protezione della nostra inadeguatezza, della nostra fragilità e dei nostri fallimenti maturati con errori attribuiti ad altri per comodità e pigrizia. Dietro la baldanza e l’intransigenza di quella maschera, si nasconde il desiderio che qualcuno ti rassicuri pensando per te: la mamma, il Sindaco, il Papa, la madonna, la televisione. Meglio ancora vantarsi di essere ignoranti: ciò prepara la famigliarità con la violenza, somministrata in dosi progressive e in una dimensione dimenticabile o accettabile se non azzerabile.
Piccolo, poi propone un’altra riflessione. Quel desiderio nasce nei duri che covano il sottile desiderio di trovare un modus vivendi con gli altri. E cresce con il rifiuto di pensarsi come diversi e superiori. E’ l’abbandono del linguaggio confortante della battuta che deride e disprezza. E’ la ricerca di argomenti, strategie, programmi, modelli organizzativi da sperimentare. Nel primo caso, al centro sta la politica con l’etica della responsabilità. Nel secondo caso, è al comando l’etica dei principi inamovibili. Dove, al centro c’è la morale, ovvero il modo più irresponsabile di dissipare la propria purezza. Dove la virtù della coerenza si confonde con quella del pappagallo (che ripete sempre) o del sonnambulo (che si muove nella notte senza accorgersi che il mondo è cambiato).
Si tratta di scegliere fra una politica inclusiva che è curiosa delle contaminazioni, o una politica esclusiva, riservata a chi è convinto di poter cambiare il mondo senza cambiare se stessi e che si trincera nella ridotta delle proprie certezze incomunicanti. E ritiene il dialogo una forma di cedimento alle tesi altrui.
Non è un grande obiettivo andare in bicicletta per il gusto estetico di dimostrare la nostra capacità di creare più difficoltà a quel traffico asfissiante. Ci interessa pedalare perché abbiamo scelto dove andare, fuori dal traffico!
Ma la direzione resta oggi ancora troppo incerta. Ad esempio, l’area che in questi giorni rende omaggio al pensiero di Rossana Rossanda che propugnava radicali revisioni, sembra pedalare in una palude. Aveva ragione per la Budapest del ‘56 e per Praga del ‘68. Aveva ragione quando vide nella contestazione giovanile e operaia del ‘68-‘69 una voglia di protagonismo da cui il movimento sindacale doveva lasciarsi attraversare. Aveva ragione quando rifiutò di vedere nella galassia turbolenta del ‘77 non solo un diciannovismo (che pure c’era) da contrastare, ma una critica della politica che stava abbandonando il terreno dell’emancipazione per trasferirsi negli spazi attraenti dove si pensa solo ad esercitare il potere. Aveva ragione nel sostenere il referendum sulla scala mobile (secondo me, no). Aveva ragione nell’avversare la liquidazione del Pci.
• Ma perché quell’area, in gran parte di sinistra, rimase frastagliata?
• Perchè fallì tutte le volte che poteva darsi una strumentazione unitaria capace di allestire una convivenza delle differenze?
• Perchè riprodusse in piccolo le degenerazioni burocratiche e carrieristiche da cui diceva di voler fuggire inorridita?
Nessuna risposta è finora pervenuta! 


Mario Dellacqua


– Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Einaudi, 2013, p. 264.







giovedì 1 ottobre 2020

MIMMO LUCANO, IL FUORILEGGE




Con un pugno chiuso sotto il mento che tiene su la testa, quasi a voler costringere gli occhi a guardare in alto e lontano, in direzione ostinata e contraria, la foto di copertina anticipa il racconto della vicenda umana e politica del “fuorilegge”, il Sindaco di Riace dal 2004 al 2018 estromesso dal suo incarico dopo un calvario di inchieste giudiziarie. Quella di Mimmo Lucano è “la lunga battaglia di un uomo solo” che ha scelto di sfidare solitudine e incomprensioni mettendo a repentaglio la maturità degli anni migliori per rispondere agli interrogativi della “grande migrazione globale” nella sua terra cosparsa di profumi, ma anche insanguinata dalla ‘ndrangheta.

Con Mimmo Lucano, il potere giudiziario, politico e amministrativo le ha tentate tutte con un puntiglio spietato e degno di miglior causa. Prima arrivarono gli avvisi di garanzia per il rilascio di carte d’identità a una madre eritrea e al suo bimbo di sette giorni. Poi comparvero gli arresti domiciliari seguiti dal divieto di dimora. Furono disposte ispezioni che accertavano l’inagibilità dei ricoveri per gli asini addetti alla raccolta differenziata dei rifiuti nelle stradette dove nessun veicolo può passare. Venne contestato l’incarico affidato a due cooperative non iscritte all’albo regionale. Il senatore Maurizio Gasparri caldeggiò in un’interrogazione parlamentare l’allontanamento dagli schermi della RAI di uno sceneggiato che con Beppe Fiorello rischiava di popolarizzare i successi di un esperimento di integrazione volto anche a contrastare lo spopolamento dei piccoli centri nelle aree interne. Mentre arrivava perfino la solidarietà di Papa Francesco, i riconoscimenti internazionali accrescevano il prestigio del Sindaco e la dignità di Riace.

L’esperimento – per alcuni osservatori addirittura un modello - andava soffocato a tutti i costi perchè funzionava e usava le risorse riservate agli Sprar per far rinascere una comunità nel lavoro, non per assistere nell’inedia gli emarginati italiani e stranieri. Così il ritardo dei fondi già stanziati a Roma metteva in difficoltà il respiro dell’economia locale: i laboratori artigianali del vetro, della ceramica e del legno, il turismo solidale, la taverna, il frantoio, la fattoria didattica, una rinata scuola elementare dove si incrociava una babele di lingue, i primi lavori per curare il dissesto idrogeologico del territorio, gli interventi per sottrarre l’acqua alla gestione delle multinazionali e conquistare tariffe meno esorbitanti per i cittadini e meno onerose per le casse del Comune. I bonus messi in circolazione con l’immagine di Gandhi e Guevara per tenere in vita l’economia delle botteghe incappavano fatalmente nel divieto di battere moneta: un rimedio ideato dal Comune per riparare una disfunzione dello Stato, dallo Stato medesimo veniva disattivato.

Ma la malinconia di Lucano convive con una tormentata tenacia. Di lui si potrebbe oggi dire quello che Giorgio Bocca scrisse nel 1992 per commentare la parabola di Peppe Lavorato, dal 1994 al 2003 il sindaco comunista della stessa Rosarno che nel 2018 avrebbe eletto senatore Matteo Salvini: “E’ questa punizione dei migliori che incontro in ogni luogo del profondo sud ad angosciarmi, questa umiliazione continua degli onesti, questo tradimento dello Stato verso i suoi cittadini migliori. E mi fa paura più della mafia. Vedere che per una politica di rapina e di scrocco si è buttato via questo patrimonio di civiltà che c’era nel Mezzogiorno, le lotte dei lavoratori, la loro solidarietà, il loro orgoglio di gente onesta”.

Peppe Lavorato in questi anni non ha mai lasciato solo Mimmo Lucano che ha trasformato in scuola per sé e in magistero per chiunque altro il suo incontro con il meglio del volontariato e della politica meridionale e italiana. Vittorio Agnoletto, Ilario Ammendolia, Natale Bianchi, Laura Boldrini, il vescovo GianCarlo Maria Bregantini, Franco Calamida, Aurelio Circosta, Domenico Congiusta, Giovanni Di Leo, Alfonso Di Stefano, Paolo Ferrero, Dino Frisullo, Rocco Gatto, Cecile Kienge, Agazio Loiero, Giovanni Maiolo, Giovanni Manoccio, Mario Oliverio, Cosimo Pazzano, Tonino Perna, Maria Ripamonti, Chiara Sasso, Pina Sgrò, Maria Spanò, Alex Zanotelli: tutta questa umanità militante e solidale è passata da Riace per “unire le sue debolezze” e “trasformarle nella forza necessaria per concretizzare un sogno”.

Ma la potenza di quel virus umano non è stata abbastanza contagiosa. Non ha finora saputo produrre quella miscela di comprensione reciproca e di alleanze necessarie per tentare la conquista del governo. Sono andate in porto altre alleanze. Il ministro Minniti stringeva mani per aprire i campi libici e commerciare motovedette. Preparava così una buona accoglienza al suo successore leghista, impegnato a restringere le aree della protezione e a ampliare quelle della clandestinità, efficaci per consegnare i migranti all’economia dello scarto tra le fauci del caporalato e della malavita nella baraccopoli di San Ferdinando.

Le accuse infamanti di concussione che hanno ferito Mimmo Lucano sono più prudentemente diventate oggi anomalie burocratiche e procedurali, “interferenze” o “opacità” che non configurano alcuna frode, alcuna ipotesi delittuosa, il benchè minimo interesse personale. Ma resta come un macigno che pesa sulle nostre spalle una politica che abbandona l’emancipazione perché si esaurisce “in un puro esercizio del potere”. E semina lo scoramento di chi dice: “tanto non cambia niente” e “la gente vota chi gli conviene”. Questa sinistra che abbiamo costruito e devastato è ancora provinciale e pigra. Non sa ancora convivere con le sue differenze che sono fisiologiche di questi tempi. Non sa fare sacrifici e manca di generosità. Si permette il lusso di affrontare il mare in tempesta ognuno con la sua barchetta e il suo fedele equipaggio, geloso delle sue avarie.

Mario Dellacqua

MIMMO LUCANO, Il fuorilegge, Feltrinelli, agosto 2020, p. 183, euro 15.

GIORGIO BOCCA, Aspra Calabria, Rubbettino, 2011, p. 74, euro 7,90.