Primo passo: gli avvenimenti del mondo capitano come se tu vivessi in un altro pianeta: li guardi in tv, nella certezza che tu non c’entri niente. Secondo passo: le tragedie e gli slanci dell’umanità ti capitano tra i piedi e non puoi più fare come Don Abbondio che proseguiva il suo cammino “guardando a terra e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero”. Terzo passo: ci finisci casualmente dentro fino al collo, foss’anche per il gusto adolescenziale di fare il tifo per Davide che umilia Golia in una partita di calcio. Una volta valicati i confini dell’indifferenza, Francesco Piccolo, autore di un bel libro di anni fa, non riesce più a tirarsene fuori. Il delitto Moro, la scala mobile, la morte di Berlinguer, l’ascesa di Berlusconi, la fine traumatica del primo governo Prodi diventano le tappe del viaggio educativo che negli ultimi 40 anni scorrono come un fiume sotterraneo accanto alle ordinarie anomalie della sua vita privata: il giovanotto diventa comunista, ma riesce a dire che il libro della Cederna sul Presidente Leone è una mascalzonata confidandosi con suo padre di destra, non con sua madre iscritta al partito. E poi zii, amici e fidanzate arrivano a interloquire e si sovrappongono nel suggerire, condizionare, imporre, defilarsi, ricomparire.
Dalla mia parte il bene, dall’altra il male. Di qua l’onestà, di là la corruzione. Di qua la cultura, di là l’ignoranza. Di qua Berlinguer con la sua diversità, di là Craxi con la sua arroganza del potere. E subito dopo, di qua Berlusconi, non il Presidente del Consiglio cui contrapporre il programma di uno schieramento alternativo, ma l’uomo di plastica, il manipolatore televisivo degli ingenui, il trafficante miliardario, il barzellettiere nano, il puttaniere. Di qua la straziante disperazione degli orfani di Berlinguer in attesa di un leader, aggrappati al mito della loro diversità che non tollera compromessi.
Francesco Piccolo, in “Il desiderio di essere come tutti”, prima racconta che il mito della diversità è solo una maschera a protezione della nostra inadeguatezza, della nostra fragilità e dei nostri fallimenti maturati con errori attribuiti ad altri per comodità e pigrizia. Dietro la baldanza e l’intransigenza di quella maschera, si nasconde il desiderio che qualcuno ti rassicuri pensando per te: la mamma, il Sindaco, il Papa, la madonna, la televisione. Meglio ancora vantarsi di essere ignoranti: ciò prepara la famigliarità con la violenza, somministrata in dosi progressive e in una dimensione dimenticabile o accettabile se non azzerabile.
Piccolo, poi propone un’altra riflessione. Quel desiderio nasce nei duri che covano il sottile desiderio di trovare un modus vivendi con gli altri. E cresce con il rifiuto di pensarsi come diversi e superiori. E’ l’abbandono del linguaggio confortante della battuta che deride e disprezza. E’ la ricerca di argomenti, strategie, programmi, modelli organizzativi da sperimentare. Nel primo caso, al centro sta la politica con l’etica della responsabilità. Nel secondo caso, è al comando l’etica dei principi inamovibili. Dove, al centro c’è la morale, ovvero il modo più irresponsabile di dissipare la propria purezza. Dove la virtù della coerenza si confonde con quella del pappagallo (che ripete sempre) o del sonnambulo (che si muove nella notte senza accorgersi che il mondo è cambiato).
Si tratta di scegliere fra una politica inclusiva che è curiosa delle contaminazioni, o una politica esclusiva, riservata a chi è convinto di poter cambiare il mondo senza cambiare se stessi e che si trincera nella ridotta delle proprie certezze incomunicanti. E ritiene il dialogo una forma di cedimento alle tesi altrui.
Non è un grande obiettivo andare in bicicletta per il gusto estetico di dimostrare la nostra capacità di creare più difficoltà a quel traffico asfissiante. Ci interessa pedalare perché abbiamo scelto dove andare, fuori dal traffico!
Ma la direzione resta oggi ancora troppo incerta. Ad esempio, l’area che in questi giorni rende omaggio al pensiero di Rossana Rossanda che propugnava radicali revisioni, sembra pedalare in una palude. Aveva ragione per la Budapest del ‘56 e per Praga del ‘68. Aveva ragione quando vide nella contestazione giovanile e operaia del ‘68-‘69 una voglia di protagonismo da cui il movimento sindacale doveva lasciarsi attraversare. Aveva ragione quando rifiutò di vedere nella galassia turbolenta del ‘77 non solo un diciannovismo (che pure c’era) da contrastare, ma una critica della politica che stava abbandonando il terreno dell’emancipazione per trasferirsi negli spazi attraenti dove si pensa solo ad esercitare il potere. Aveva ragione nel sostenere il referendum sulla scala mobile (secondo me, no). Aveva ragione nell’avversare la liquidazione del Pci.
• Ma perché quell’area, in gran parte di sinistra, rimase frastagliata?
• Perchè fallì tutte le volte che poteva darsi una strumentazione unitaria capace di allestire una convivenza delle differenze?
• Perchè riprodusse in piccolo le degenerazioni burocratiche e carrieristiche da cui diceva di voler fuggire inorridita?
Nessuna risposta è finora pervenuta!
Mario Dellacqua
– Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Einaudi, 2013, p. 264.