Nella mattinata del 22 luglio ho partecipato a una riunione che mi ha molto impegnato nella riflessione sugli effetti dei fenomeni migratori nel pensiero e nei comportamenti dei lavoratori e delle loro organizzazioni.
A confronto con la segreteria della Cisl torinese rappresentata da Nanni Tosco, Giorgio Bizzarri e Angelina Kalayan c’era un gruppo di iscritti cislini oggi critici con la leadership di Raffaele Bonanni, ma negli anni settanta delegati operai o dirigenti di importanti categorie dell’industria e del pubblico impiego come Renato Bresciani, Antonio Buzzigoli, Toni Ferigo, Giuseppe Mainardi, Armando Michelizza, Tony Marcolungo, Armando Pomatto, Alberto Tridente. Scrivo per rimettere ordine nelle mie idee e per raccogliere alcuni spunti, non certo nella pretesa di rendere giustizia a tutti i partecipanti con un resoconto fedele dei loro interventi.
Michelizza ha ricordato il fattore demografico. Un fatto è certo: nei prossimi decenni la riduzione a minoranza della componente indigena italiana. La trasformazione di una condizione personale in un reato penalmente perseguibile (la clandestinità) è l’anticamera dell’instaurazione di un regime di apartheid in cui la minoranza domina la maggioranza. Fin qui tutti d’accordo, ma poi cominciano le sofferenze.
C’è chi sottolinea che il lavoro degli immigrati è una risorsa per la nostra economia, che il Nord Est non potrebbe sopravvivere senza il lavoro immigrato ( per questo il Governatore Galan se ne sta ben zitto ) e presenta come positivo l’approccio di Obama e dei sindacati americani al fenomeno (non più vagheggiamento di impossibili barriere, ma riconoscimento di diritti per evitare che la clandestinità renda conveniente far lavorare chi prende di meno a più ore, con svantaggio per i redditi di chi ora sente minacciata la sua relativa sicurezza). C’è anche chi, invece, sottolinea le grandi difficoltà di ogni politica di integrazione e consiglia maggiore fiducia nelle virtù del gradualismo. I lavoratori Indesit, ad esempio, volevano allontanare l’accusa di razzismo, ma chiedevano con insistenza garanzie a tutela degli insediamenti italiani. I datori di lavoro, ad esempio, sono talvolta iscritti Cisl che chiedono regolarizzazione delle badanti, ma criticano l’estensione finta di quella condizione ad altri. Nei cantieri, ad esempio, le rappresentanze sindacali sono multietniche con problemi non fra italiani e stranieri, ma fra diverse etnie talvolta in aspra competizione tra di loro. Talune etnie sono particolarmente impermeabili ad ogni forma di contaminazione: pensiamo ai cinesi. Nel sindacato, le categorie più progressiste sono quelle meno investite dall’impatto con la presenza straniera. Nei caseggiati e nei quartieri si ha notizia di iniziative sempre più frequenti di arroccamento e di separazione dagli stranieri (cancelletti nei cortili o, aggiungo io, richiesta di distinzioni a tutela dei ragazzi italiani nelle scuole).
Gli uni si definiscono offensivi, nel senso che vogliono “giocare all’attacco” e non subire l’iniziativa leghista, gli altri gradualisti. Gli uni sottolineano l’irreversibilità del fenomeno che è un portato della globalizzazione, gli altri sottolineano l’indomabilità delle paure, l’efficacia dei richiami alla pancia, le risposte semplici a problemi difficili che la Lega suggerisce e i tempi lunghi necessari ad una battaglia culturale. Vi è anche chi sostiene la necessità di ricorrere a forme di disobbedienza civile: “diamo un attestato di appartenenza al sindacato ai lavoratori irregolari“. Altri sottolineano le difficoltà, anche interne al sindacato nel discutere a fondo di questi temi senza far scoppiare conflitti. Sono riecheggiati anche slogan vicini alla Lega, ad esempio l’invito a non essere buonisti con gli immigrati. E in effetti alcuni slogan non sono campati in aria. E qui iniziano le mie riflessioni problematiche.
“Aiutiamoli a casa loro”, ad esempio, va benissimo, ma quanto siamo indietro nell’erogazione di aiuti ai paesi del Terzo Mondo? E abbiamo mai sentito un’iniziativa umanitaria locale o nazionale della Lega per un pozzo in Kenia? Quanto al buonismo, io rispondo come Moni Ovadia. Noi non siamo buonisti, ci sforziamo di essere giusti. E io penso che vada bene quello che disse una volta in Parlamento il ministro dell’Interno del centrodestra Pisanu: bisogna dare all’immigrazione una risposta fondata alla pari sull’umanità e sulla legalità. E se la legalità viola alcuni diritti fondamentali, il principio di uguaglianza e la dignità delle persone, bisogna denunciarlo e disobbedire, accettando tutte le conseguenze dei propri atti. Penso che la sottovalutazione di questa che considero un’emergenza democratica sia un grave errore. Mi rendo conto che ciò comporta il rischio di rompere la connessione sentimentale con parte del mondo del lavoro, ormai vittima del fascino della lotta tra gli ultimi e i terzultimi. Eppure penso che su queste questioni di principio sia doveroso impuntarsi. Del resto il problema delle “contraddizioni in seno al popolo “ non è di oggi.
Negli anni settanta c’erano nelle fabbriche operai che non volevano inserire nelle piattaforme aziendali gli investimenti per il Mezzogiorno. Dicevano : “pensiamo alle nostre buste paga, chi ha voglia di lavorare venga al Nord come noi e non rimanga invece dove c’e la pensione di invalidità dei genitori“. C’erano operai che non volevano le donne in fabbrica: “se ne stiano a casa a guardare i figli e la cucina, così si fa spazio per le nostre paghe o per altri disoccupati”. C’erano operai che non volevano il reparto invalidi: “gli diano una pensione per farli stare a casa”. Facemmo bene a tenere duro, a lottare per Grottaminarda e Termoli e non solo per il salario, a non mandare a casa le donne e gli invalidi. Facemmo malissimo, invece, a ignorare o a caricare di improperi questi soggetti smarriti nelle paludi dell’egoismo e aggrappati alla difesa corporativa della loro condizione. Faremmo malissimo, oggi, a insultare gli operai leghisti, ma faremmo anche male a far credere loro che la soluzione a un problema difficile possa essere reperita percorrendo le scorciatoie povere dei fili spinati e lo spettacolo rassicurante dei respingimenti o dei barconi affondati. Scorciatoie (orribili) che allungano. Se così fosse, dovremmo aspettare che si consumi l’illusione della violenza per poi vedere sorgere l’alternativa faticosa dell’integrazione.
Mario Dellacqua