Colpevoli di tutto quello che va a rotoli, i giovani sono spesso accusati di non rispettare gli anziani, le radici e la memoria. Attratte da una frenetica ansia di innovazioni demolitive e blasfeme, le nuove generazioni sono sospinte da un desiderio confuso di annullare e sorpassare, di disprezzare e di distinguersi.
Ma la memoria è un'attrezzatura magica da usare con religiosa parsimonia e illuministica diffidenza perché “persegue sempre scopi legati al momento presente”.
Ce lo insegna questo lavoro di Massimo Bonifazio che si è avventurato sulle tracce del travaglio sotterraneo e superficiale della società tedesca alle prese con il nodo irrisolto della propria complicità con il dodicennio nazista. Uno studio attraente e coinvolgente perché capace di intrecciare le suggestioni contraddittorie della letteratura con i sentieri accidentati della storia.
Il prof. Massimo, che ha la sfrontata umiltà di dichiararsi in apertura “nè uno storico, né un sociologo”, è riuscito a dimostrarci sul campo che la memoria è “inesorabile” perché la si interroga per trovare risposte e ci tortura con sempre nuove domande, se solo cessiamo di usarla per consolare, nascondere, giustificare, assolvere o esaltare noi stessi, o i nostri amici. O la nostra Chiesa. O il nostro paese. O il nostro partito.
La memoria va difesa innanzitutto da se stessa. Massimo Bonifazio ce l'aveva già spiegato il 17 gennaio scorso all'Angolo quando con l'Anpi si era discusso dell'opera di Primo Levi, di Alberto Cavaglion, di Jean Amèry, di Thomas Mann....e dei conti in sospeso degli italiani con il fascismo. Perché la memoria riempie o svuota, cancella o aggiunge, vela e rivela, manipola consapevolmente e/o subisce inesplicati condizionamenti di contesti imprevisti che ti mettono in discussione.
Il caso tedesco che Massimo esamina è emblematico di grandi rimozioni e di grandi confezioni fabbricate per far tornare, di un passato che non passa, conti che non possono tornare agli occhi inquieti di chi non si accontenta dei tribunali costituiti a giustificare i patiboli per gli sconfitti e dei monumenti eretti a santificare i vincitori.
Impossibile pretendere una memoria condivisa e ricostruzioni definitivamente obiettive. Meglio convivere con tante memorie in competizione e in perenne esplorazione. Meglio preferire la frattura incomponibile. Dalle ferite inguaribili può sgorgare l'interrogazione feconda e non so se c'è un altro modo per curarle se non tenendo desta la vigilanza del cruccio e la minaccia del dubbio.
Noi italiani ne sappiamo qualcosa. De Gasperi e Togliatti hanno prontamente elaborato una congiunta visione della Resistenza come secondo Risorgimento che ci ha riscattato dalle vergogne del ventennio e dava all'ex nemico il diritto di non essere considerato perennemente imputato. De Gasperi alla Conferenza di pace di Parigi del 10 agosto 1946 poteva fare appello alla “personale cortesia” dei capi delle potenze vincitrici per scongiurare i pericoli di una pace punitiva e per caldeggiare l'inserimento dell'Italia nei programmi della ricostruzione europea. Togliatti cosparse le pagine di Rinascita con il suo inchiostro verde, per stroncare Calvino, Cassola, Pavese e Fenoglio tutte le volte che la vena antieroica dei loro romanzi potevano gettare la minima ombra di sospetto sui protagonisti di una stagione epica da monumentalizzare nella memoria ufficiale dell'Italia repubblicana.
Ma per i tedeschi il tormento fu (e resta) doppiamente schiacciante e complicato. Gli americani furono accolti da un silenzio glaciale e la fine della guerra fu da loro vissuta come una catastrofica disfatta morale, non come una liberazione. Era impossibile sentirsi innocenti e dunque la colpa fu scaraventata interamente sulla banda di criminali che si erano impossessati del potere con l'inganno e la seduzione. Ma, per quanto si tentasse di rinverdire il mito di una Wehrmacht pulita contrapposta alla barbarie della Gestapo, il nuovo inganno non poteva cancellare il vecchio. Non ci riuscì neppure la memoria risorgente degli stupri e delle violenze di cui si macchiarono i soldati sovietici a Berlino, come se, una volta divenuti vittime, si potesse attenuare l'onta della fiera appartenenza precedente al popolo dei criminali.
Dieci anni dopo, la dimensione apocalittica e unica di Auschwitz scalfì la grande rimozione e il muro del silenzio subì i colpi dei primi faticosi tentativi di fare i conti con i crimini nazisti: con il '68, grazie alla ripresa della storiografia marxista, l'emergente voglia di sapere faceva risalire alle sue radici capitalistiche lo “spirito maligno” del nazismo, ma non mancò chi, andando oltre letture scolasticamente materialistiche, legò il dilagante e pervasivo successo di Hitler a “un'esplosione di pulsioni aggressive verso oggetti sottratti a divieto”. E non mancò chi associò al narcisismo cioè al “precocissimo infantile innamoramento di sè” il culto “sempre rinascente di una grandezza e di una dignità nazionale incontaminabili”. E, in visita a Varsavia al monumento agli ebrei del ghetto insorti nel 1943, “sotto il peso di milioni di assassinati” il cancelliere Willy Brandt cadde in ginocchio: fece il 7 dicembre 1970 ciò che fanno le persone quando si sentono investiti dall'improvvisa consapevolezza che “le parole non sono sufficienti”. Con quel gesto non solo onorò la memoria delle vittime, ma si assunse una colpa che chiamava in causa la Germania nel suo complesso. Da qui nacque un vivo interesse a ricercare “i modi di funzionamento del nazismo in basso” e ad illuminare le vicende personali e quotidiane dei protagonisti oscuri, sconosciuti e decisivi del nazismo. Figli e nipoti non vollero mettere sullo stesso piano vittime e carnefici. Neppure vollero “rileggere il passato per addomesticarlo”. Piuttosto, decisero di aprire il dialogo con i nonni che erano stati testimoni diretti di quell'epoca. Al centro di questa innovativa direzione di ricerca che rielaborava il trauma in famiglia, i nuovi storici sembravano “ossessionati dall'esigenza di far rivivere ciò che i padri” avevano “cancellato”. Perciò non considerarono i comportamenti delle persone in carne e ossa come prodotto meccanico delle strutture sociali. Questa impostazione marxista, per la quale “la critica del fascismo era soprattutto una critica del capitalismo”, era egemone nella DDR, ma non sapeva spiegare come mai ai movimenti di estrema destra arrivò anche il consenso di ingenti settori operai. Con la riunificazione delle due Germanie, dagli anni Novanta si sono esauriti i contrasti per spartirsi e addebitarsi l'eredità inquietante del nazismo.
Se, da quel punto di svolta, l'affetto per i nonni non è disposto a “metterne in secondo piano le responsabilità”, abbiamo spalancata davanti a noi una pista di ricerca che può potentemente aiutare a formulare le giuste domande e ad allestire più convincenti interpretazioni di questo passato che non passa e che continua a turbare i tedeschi. Ma è meglio che non lasci in pace neppure noi italiani.
Mario Dellacqua
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