Sembrano assopite le
polemiche sull'art. 18 e sulla necessità, sostenuta in particolare
dal prof. Pietro Ichino, di ridurre la rigidità dei diritti ai
garantiti delle grandi industrie per dirottare maggiori tutele a
favore della crescente area del lavoro precario. Si sosteneva fra
l'altro che una maggiore flessibilità in uscita (non si poteva dire
subito licenziamenti più facili?) avrebbe rassicurato le aziende e
incentivato le assunzioni. D'altra parte, a causa dello scioglimento
delle Camere intervenuto nello stesso anno in cui sono state raccolte
le firme, è decaduto il referendum abrogativo che chiedeva di
cancellare le modifiche concordate con il ministro Fornero.
Mentre siamo in attesa di
verificare l'impatto delle nuove norme sull'occupazione, da
“Avvenire” apprendiamo che nei primi nove mesi del 2012 sono
stati un milione125mila e 564 (1.125.564) i contratti cessati per
volontà del dipendente.
La fonte è una comunicazione trimestrale
del Ministero del Lavoro. Difficile credere che un milione e fischia
di nuovi lavoratori abbiano deciso di cambiare lavoro perchè hanno
incrociato migliori opportunità professionali. Più amaramente
realistico ipotizzare che si tratti del conosciuto e
sperimentatissimo espediente delle dimissioni firmate in bianco, cui
le imprese ricorrono per sbarazzarsi del lavoratore indesiderato ad
nutum, spacciando per scelta volontaria quello che è
invece un ricatto preventivo.
Delle dimissioni in
bianco, da sempre sono vittime specialmente le donne, ma ora gli
uomini che subiscono quel trattamento peggiorativo sono saliti al 40%
dei casi.
Prima del 2008, esisteva
una norma che obbligava ad usare moduli numerici validi al massimo 15
giorni per presentare le dimissioni volontarie, ma il minstro Sacconi
la smantellò con il pretesto dell'eccesso di burocratizzazione che
comportava.
La riforma Fornero
all'art.4 prevede la convalida delle dimissioni da parte del
lavoratore: è però ancora troppo presto per dire se e quanto essa
sia stata efficace.
Vedi L. MAZZA, Lavoro,
c'è un'Italia
che si dimette,
“Avvenire”, 27 gennaio 2013, p.24.
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