Ma nel pomeriggio di sabato 27 giugno, chi c'era
all'angolo non ottuso di via Roma 11 a None? I lavoratori della Festainrosso
decidevano di celebrare il traguardo di 25 anni di solidarietà proponendo
un'insolita anteprima, inventata apposta per incontrare Giuseppe Fiorentino, il
fondatore dei rifondaroli nonesi, e per consegnargli una targa-ricordo in onore
dei suoi 40 anni di impegno politico.
Molti i volti amici presenti ad un piccolo evento
dal grande significato. C'era il Sindaco Enzo Garrone con il suo vice Roberto
Bori. C'era il capogruppo della minoranza Giovanni Garabello. E c'era il
Direttore del mensile locale “Il Mondo di None”, Gregorio Codispoti.
Tra i
vecchi militanti spiccava la presenza di Giorgio Melega e del prof. Aldo
Sandullo, negli anni Ottanta entrambi assessori e animatori della sezione
socialista. Non poteva mancare Pasquale Marino, rappresentante sindacale alla
Streglio e protagonista con Fiorentino dei primi passi nell'avventura
rifondarola. Già così numerosa, la famiglia Fiorentino si allargava in un
abbraccio amichevole e fraterno, a dispetto sorridente degli anni e degli
acciacchi.
Sulla targa consegnata dal Sindaco campeggiava
questa scritta: “A Giuseppe Fiorentino per i suoi 40 anni di impegno politico a
None. Amici e compagni della Festainrosso”. Insieme alla targa, l'omaggio di
una radiolina tascabile e di una fotografia che ritrae, a cura di Tullio
Paganin, la vecchia sezione comunista di via Stazione intitolata ad Antonio
Gramsci.
L'incontro è stato utile per riflettere sulla
militanza politica, sui suoi valori, sulla sua attualità insidiata, invocata o
derisa come una fedeltà obsoleta, sulla sua vitale necessità e sulla sua
drammatica crisi, sulla sua riduzione a spettacolo televisivo in cui fare il
tifo illudendosi di partecipare all'accattivante tenzone di insulti, simpatie e
volgarità con un “mi piace” nel cortile di face book. E nessuno ci
poteva aiutare in questo percorso di luci e di ombre meglio del prof. Franco
Milanesi che nel suo volume “Militanti” ha esplorato con un occhio
europeo e trasversale il fenomeno novecentesco della grande politicizzazione
italiana: fino al 93 per cento di affluenza alle urne, Partito Comunista a un milione e 800mila iscritti, Democrazia
Cristiana attorno al milione: la storia della democrazia italiana è storia
della Repubblica dei partiti. Un retroterra di sezioni, circoli ricreativi,
cooperative, amministratori comunali, pubblicazioni locali, leghe sindacali
attivava il reticolo della partecipazione. Favoriva l'istruzione popolare.
Anche se non li chiamava così. Elaborava piccoli piani regolatori sociali che
sapevano misurare la distanza fra i bisogni rilevati e le possibilità di
soddisfarli mediante il conflitto, la collaborazione, gli accordi con le
imprese e i provvedimenti legislativi in parlamento, nelle Regioni e nei
Comuni. Inseriva nella vita democratica leve di giovani ribelli di
tutti gli ambienti sociali e tanta parte delle classi subalterne prima estranee
al funzionamento dello Stato.
“Era una diversità antropologica – ha
detto Milanesi – fondata su una diversa visione del mondo e sull'idea
irrinunciabile che esso potesse cambiare solo contando sul protagonismo e
sull'emancipazione dal basso delle classi subalterne”. Ah, ah. Non un mondo
da idealizzare con le oggi consolatorie immagini pasoliniane del Pci come “paese
nel paese” e della diversità comunista come superiorità etica e genetica.
Non un mondo di cui ricordare con struggente nostalgia il leader perduto e
atteso come una specie di Ulisse che arriverà un giorno dal mare a salvare la
sua famiglia dalle grinfie dei Proci. In quel mondo infatti potevano
serpeggiare interpretazioni settarie, intolleranti e totalizzanti dell'impegno
politico. In quel mondo trovarono il modo di insediarsi le prime manifestazioni
di narcisismo che approdavano alla pratica della clientela e della corruzione
passando attraverso le ambizioni di carriera e le mediocri peregrinazioni
trasformistiche da uno schieramento all'altro. Tutto cominciava con il leader
locale che accentrava potere per lamentarsi di dover fare troppe cose da solo.
Tutto si sviluppava proprio mentre “la base” delegava decisioni e elaborazioni
al leader, salvo poi scoprire di contare troppo poco al momento giusto o solo
quando si tratta di applaudire la propria consorteria. Bell'affare abbiamo
fatto. La dilapidazione di quel patrimonio immenso di potenziale creatività
sociale ha distrutto l'unica medicina in grado di curare la micidiale
commistione fra affari e politica.
Il bambino non vedeva l'acqua sporca e tendeva le
mani non innocenti verso chi sarebbe arrivato a liberarlo dal lordume
rovesciandogli la vasca in testa.
“Ci vuole il braccio e la
mente”, ha detto Fiorentino in una breve e commossa
rivisitazione della sua esperienza. Don Milani notava che chi sa volare non
deve tagliarsi le ali per solidarietà con i pedoni, ma deve permettere a tutti
di imparare a volare verso la scoperta della propria autonomia e dignità. E polemizzando con chi polemizzava con i suoi
articoli “lunghi” e “difficili”, Gramsci scriveva che il primo
grande passo verso l'emancipazione si fa trattando da uomo libero e consapevole
chi è sempre stato trattato come un eterno bambino bisognoso di essere guidato
in tutto. E aggiungeva che non si vede per quale ragione un operaio non debba
poter apprezzare Leopardi o Beethoven, mentre sarebbero adatte a lui solo gli
stornelli di Piedigrotta. E a Walter Mandelli che non voleva accettare le 150
ore di diritto allo studio perchè gli operai suonassero il clavicembalo a spese
delle aziende metalmeccaniche, il leader della FLM Franco Bentivogli rispose
con un disarmante “Perchè no?”. Ma boia falso, tutta la storia del
socialismo italiano è sperimentazione di impasti tra falci, libri, martelli e
soli, cioè tra braccio e mente, tra pensiero e azione, tra lavoro manuale e
intellettuale, cioè tra bisogno di aiutarsi e voglia di stare meglio insieme
oggi. E' una continua ricerca sempre in bilico per legare i diritti ai doveri,
per vincolare il progresso all'uguaglianza, per ancorare il lavoro alla libertà.
Ieri Riccardo Lombardi ci parlava di una
società “diversamente ricca” e proponeva la “programmazione
democratica”, un ossimoro che con altre parole induce il Papa Francesco a
parlare con grazia straordinariamente incisiva della necessità di combattere lo
scioglimento dei ghiacciai e i mutamenti climatici anche acquistando e
cucinando solo ciò che ragionevolmente dovremo mangiare.
“Troppe volte si mette l'avere e l'apparire
davanti all'essere” ha osservato il Sindaco Garrone. Sempre
Gramsci non condannava l'ambizione. Anzi addirittura la incoraggiava, ma
distingueva l'ambizione che porta a fare terra bruciata attorno a sé e
l'ambizione che porta a elevarsi un intero ceto delle classi subalterne perchè
lo sa fare capace di attenzione, di azione e di cittadinanza consapevole.
Oggi non è un bel vedere che tra i disoccupati il
gratta e vinci riscuota più successo della petizione di Libera per il reddito
di cittadinanza contro la miseria ladra che toglie dignità e porta dipendenza
clientelare.
Tuttavia, non si vede una via d'uscita per la
nostra democrazia malata se non ricompariranno in forma aggiornata gli
anticorpi di una partecipazione popolare, di una solidarietà sociale, di un
impegno collettivo capace di sprigionare forme di controllo e di governo delle
decisioni di imprese e istituzioni.
La politica va rivalutata e riconquistata, ha
detto Milanesi: essa è la civilizzazione della lotta per il potere, è l'arte
che trasforma la guerra contro il nemico in conflitto sociale e programmatico.
E' la gara di opposte visioni del mondo che promuovono il progresso di tutti
perchè hanno reciprocamente maturato il rifiuto che la propria vittoria
coincida con l'annientamento dell'avversario e con la distruzione del bene
comune.
Mario Dellacqua
c'era tizio, caio e tanta voglia di crederci ancora. Ferruccio
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