Pane duro per i miei denti – come immaginavo - questo saggio di Giovanni Arrighi e Fortunata Piselli ripubblicato dall'editore Donzelli trent'anni dopo la sua comparsa. Ma sono diventato amico della Calabria e questo testo occhieggiava in una libreria di Acri con il suo titolo intrigante.
“Il capitalismo in un contesto ostile” rovista tra le radici produttive e sociali che hanno pronunciato a carico dell'imputato calabrese un verdetto di condanna a una secolare collocazione periferica, lontana da ogni possibilità di riabilitazione civile. E non si vede quali movimenti di opinione e di lotte sociali possano chiedere la revisione del processo. Un giudice rassegnato e cinico, anonimo e collettivo, sembra aver scritto: “fine pena mai”.
Nel suo ultimo “Piano inclinato” Romano Prodi osserva che – nel quadro di una tumultuosa crescita delle disuguaglianze sociali – il divario tra i territori ha raggiunto proporzioni spaventose. “Il reddito pro capite della Calabria nel periodo della crisi è passato dal 45 al 40% rispetto al reddito della provincia di Bolzano” e il Mezzogiorno “ha perso 13 punti di PIL e quasi 600mila lavoratori, contro gli 11 punti di PIL e i 211mila lavoratori del Centro Nord”.
Ma quali dinamiche produttive, quali assetti della proprietà, quali prezzi e quale composizione della forza lavoro hanno travagliato nelle paludi dell'arretratezza questo popolo di braccianti e di latifondisti, di bovari e di borghesia terriera, di pastori e di coltivatori piccoli proprietari, di notabili e di migranti?
Giovanni Arrighi, scomparso nel 2009, era uno studioso militante. Venuto da Trento, approdò alla cattedra di Sociologia presso l'Università della Calabria nel settennio 1973-1979. Con quello di Fortunata Piselli, il suo occhio planetario è attento alle particolarità locali del genius loci, ma è ancorato ad una pluralità ricchissima di comparazioni tra autori e tra territori: Lenin e la Prussia, Carol Smith e il Guatemala, John Casparis e la Svizzera, Philip Houg e la Colombia, Ben Scully e il Sud Africa, Shaoua Zhan e la Cina. E poi ancora la Tanzania, la Rhodesia, Samir Amin, Pino Arlacchi, la torinese Luisa Passerini, Immanuel Wallerstein, David Harvey. Uno stuolo di ricercatori per una visione globale.
Nel Crotonese, nel Cosentino e nella Piana di Gioia Tauro, Arrighi e Piselli individuano tre microregioni nelle quali si configurano tre diversi modelli di insediamento dello sviluppo capitalistico.
A determinare l'accumulazione non è necessariamente la completa proletarizzazione mediante spoliazione (accumulation by dispossesion). Non solo il conflitto sociale dell'epopea bracciantile per i diritti di coltivazione e di proprietà. Non solo ondate di emigrazione permanente di lunga distanza verso Americhe, Nord Italia o Nord Europa. Incide anche il flusso delle rimesse che plasma strutture diversificate e mobilità sociale verso la piccola proprietà. Incidono le migrazioni interne e stagionali. Incidono manipolazioni clientelari del comportamento sociale ed elettorale. Incidono faide e rivolte urbane gestite nella spartizione contrattata delle risorse pubbliche.
Sia la prefazione di Marta Petrosewicz, sia la postfazione di Fortunata Piselli, affermano che il saggio conserva una sua “sorprendente attualità”. Entrambe non possono tacere la qualità nuova delle robuste modificazioni intervenute. Sempre in periferia, la Calabria odierna non è più solo terra di emigrati, ma di immigrati da altre periferie del sistema mondo. Le rivolte non scoppiano più a Reggio, ma nei ghetti neri di Rosarno. Ad andarsene non sono più i braccianti verso le industrie del nord, ma il 40% dei giovani diplomati che preferiscono gli atenei della capitale o del nord dove si allenta il controllo della famiglia ed è più facile ottenere una borsa di studio. La 'ndrangheta non si limita alla rapina delle risorse pubbliche mediante il voto di scambio e la mobilità strumentale dei clan nella geografia dei partiti e dei poteri pubblici. Al contrario, essa si è mondializzata esportando i suoi modelli a Bardonecchia in Val Susa e a Brescello in provincia di Brescello dove non c'è più l'alleanza conflittuale fra Peppone e don Camillo a canalizzare la convivenza dei blocchi sociali.
Nel persistere dell'emarginazione e del degrado ambientale, la vita quotidiana presenta una normalità “mediocre e instabile” che pur tuttavia evita ogni deflagrazione catastrofica. Le strategie dei calabresi di resistenza alla periferizzazione sono un impasto passivizzante di “piccole attività agricole di autoconsumo, rimesse degli emigrati, scambio di beni e prestazioni tra famiglie”. Negli interstizi sociali che la legalità lascia cadere nell'informalità naviga l'economia sommersa del lavoro nero. Le clientele, le parentele e le amicizie strumentali sono usate – dal basso - per ottenere servizi compensativi di un welfare derelitto. Sono confezionate – dall'alto - per ottenere consenso elettorale mediante elargizione di sussidi, impieghi pubblici, appalti, pensioni, finte invalidità e finte disoccupazioni.
La ferita più sanguinosa è legata al volto del migrante. Le rivolte calabresi non divampano più a Reggio, ma esplodono nei ghetti neri di Rosarno. Le prime sono durate un anno e hanno strappato il dirottamento di altre risorse pubbliche gestite dai centri del potere per restare in sella e proseguire il saccheggio del territorio. Mediante l'emigrazione al Nord, i calabresi hanno potuto condividere l'avanzata del proletariato industriale e concorrere alla spartizione, a loro vantaggio, di una quota dell'accresciuta ricchezza nazionale.
Finiti i “trenta gloriosi”, la rivolta degli africani di Rosarno è invece durata una notte e si è conclusa con la loro segregazione nella miserevole tendopoli di San Ferdinando. Come i braccianti di un tempo, lavorano da stelle a stelle per una miseria. Esclusi dal mercato del lavoro, non hanno diritti, medico, casa e scuola. Se alzano la testa, devono fare i conti con la ferocia dei braccianti di un tempo: “poveri richisciuti” grazie alla precaria redistribuzione assistenziale del denaro pubblico. A sorvegliare il traffico, il paternalismo violento e allettante delle cosche. “I giovani cominciarono a non rinnovare la tessera e se passavano dall'altra parte facevi presto a capirlo, bastava guardare come si vestivano, che orologio avevano, che scarpe. Li chiamavano i ragazzi dalle scarpe lucide”. Prima con Giorgio Bocca e poi in un suo libro, ne ha parlato con amarezza fiera e struggente Giuseppe Lavorato, il sindaco di Rosarno che ha visto sgretolarsi l'edificio solidale e internazionalista di questa porzione del proletariato calabrese: la lunga stagione delle lotte bracciantili si è convertita nella caccia al nero. Una parabola atroce. Il grido di Lavorato rimane largamente inascoltato e anche l'intellettualità della sinistra non sembra così allarmata.
GIOVANNI ARRIGHI-FORTUNATA PISELLI, Il capitalismo in un contesto ostile, Donzelli, gennaio 2017, p. 161, euro 19.
ROMANO PRODI, Il piano inclinato, il Mulino, maggio 2017, p.155, euro 13.
GIUSEPPE LAVORATO, Rosarno. Conflitti sociali e lotte politiche. In un crocevia di popoli, sofferenze e speranze. Reggio Calabria, Città del Sole edizioni, 2016.
GIORGIO BOCCA, Calabria aspra, Rubbettino, 2011, pag. 74, euro 7,90.
“Il capitalismo in un contesto ostile” rovista tra le radici produttive e sociali che hanno pronunciato a carico dell'imputato calabrese un verdetto di condanna a una secolare collocazione periferica, lontana da ogni possibilità di riabilitazione civile. E non si vede quali movimenti di opinione e di lotte sociali possano chiedere la revisione del processo. Un giudice rassegnato e cinico, anonimo e collettivo, sembra aver scritto: “fine pena mai”.
Nel suo ultimo “Piano inclinato” Romano Prodi osserva che – nel quadro di una tumultuosa crescita delle disuguaglianze sociali – il divario tra i territori ha raggiunto proporzioni spaventose. “Il reddito pro capite della Calabria nel periodo della crisi è passato dal 45 al 40% rispetto al reddito della provincia di Bolzano” e il Mezzogiorno “ha perso 13 punti di PIL e quasi 600mila lavoratori, contro gli 11 punti di PIL e i 211mila lavoratori del Centro Nord”.
Ma quali dinamiche produttive, quali assetti della proprietà, quali prezzi e quale composizione della forza lavoro hanno travagliato nelle paludi dell'arretratezza questo popolo di braccianti e di latifondisti, di bovari e di borghesia terriera, di pastori e di coltivatori piccoli proprietari, di notabili e di migranti?
Giovanni Arrighi, scomparso nel 2009, era uno studioso militante. Venuto da Trento, approdò alla cattedra di Sociologia presso l'Università della Calabria nel settennio 1973-1979. Con quello di Fortunata Piselli, il suo occhio planetario è attento alle particolarità locali del genius loci, ma è ancorato ad una pluralità ricchissima di comparazioni tra autori e tra territori: Lenin e la Prussia, Carol Smith e il Guatemala, John Casparis e la Svizzera, Philip Houg e la Colombia, Ben Scully e il Sud Africa, Shaoua Zhan e la Cina. E poi ancora la Tanzania, la Rhodesia, Samir Amin, Pino Arlacchi, la torinese Luisa Passerini, Immanuel Wallerstein, David Harvey. Uno stuolo di ricercatori per una visione globale.
Nel Crotonese, nel Cosentino e nella Piana di Gioia Tauro, Arrighi e Piselli individuano tre microregioni nelle quali si configurano tre diversi modelli di insediamento dello sviluppo capitalistico.
A determinare l'accumulazione non è necessariamente la completa proletarizzazione mediante spoliazione (accumulation by dispossesion). Non solo il conflitto sociale dell'epopea bracciantile per i diritti di coltivazione e di proprietà. Non solo ondate di emigrazione permanente di lunga distanza verso Americhe, Nord Italia o Nord Europa. Incide anche il flusso delle rimesse che plasma strutture diversificate e mobilità sociale verso la piccola proprietà. Incidono le migrazioni interne e stagionali. Incidono manipolazioni clientelari del comportamento sociale ed elettorale. Incidono faide e rivolte urbane gestite nella spartizione contrattata delle risorse pubbliche.
Sia la prefazione di Marta Petrosewicz, sia la postfazione di Fortunata Piselli, affermano che il saggio conserva una sua “sorprendente attualità”. Entrambe non possono tacere la qualità nuova delle robuste modificazioni intervenute. Sempre in periferia, la Calabria odierna non è più solo terra di emigrati, ma di immigrati da altre periferie del sistema mondo. Le rivolte non scoppiano più a Reggio, ma nei ghetti neri di Rosarno. Ad andarsene non sono più i braccianti verso le industrie del nord, ma il 40% dei giovani diplomati che preferiscono gli atenei della capitale o del nord dove si allenta il controllo della famiglia ed è più facile ottenere una borsa di studio. La 'ndrangheta non si limita alla rapina delle risorse pubbliche mediante il voto di scambio e la mobilità strumentale dei clan nella geografia dei partiti e dei poteri pubblici. Al contrario, essa si è mondializzata esportando i suoi modelli a Bardonecchia in Val Susa e a Brescello in provincia di Brescello dove non c'è più l'alleanza conflittuale fra Peppone e don Camillo a canalizzare la convivenza dei blocchi sociali.
Nel persistere dell'emarginazione e del degrado ambientale, la vita quotidiana presenta una normalità “mediocre e instabile” che pur tuttavia evita ogni deflagrazione catastrofica. Le strategie dei calabresi di resistenza alla periferizzazione sono un impasto passivizzante di “piccole attività agricole di autoconsumo, rimesse degli emigrati, scambio di beni e prestazioni tra famiglie”. Negli interstizi sociali che la legalità lascia cadere nell'informalità naviga l'economia sommersa del lavoro nero. Le clientele, le parentele e le amicizie strumentali sono usate – dal basso - per ottenere servizi compensativi di un welfare derelitto. Sono confezionate – dall'alto - per ottenere consenso elettorale mediante elargizione di sussidi, impieghi pubblici, appalti, pensioni, finte invalidità e finte disoccupazioni.
La ferita più sanguinosa è legata al volto del migrante. Le rivolte calabresi non divampano più a Reggio, ma esplodono nei ghetti neri di Rosarno. Le prime sono durate un anno e hanno strappato il dirottamento di altre risorse pubbliche gestite dai centri del potere per restare in sella e proseguire il saccheggio del territorio. Mediante l'emigrazione al Nord, i calabresi hanno potuto condividere l'avanzata del proletariato industriale e concorrere alla spartizione, a loro vantaggio, di una quota dell'accresciuta ricchezza nazionale.
Finiti i “trenta gloriosi”, la rivolta degli africani di Rosarno è invece durata una notte e si è conclusa con la loro segregazione nella miserevole tendopoli di San Ferdinando. Come i braccianti di un tempo, lavorano da stelle a stelle per una miseria. Esclusi dal mercato del lavoro, non hanno diritti, medico, casa e scuola. Se alzano la testa, devono fare i conti con la ferocia dei braccianti di un tempo: “poveri richisciuti” grazie alla precaria redistribuzione assistenziale del denaro pubblico. A sorvegliare il traffico, il paternalismo violento e allettante delle cosche. “I giovani cominciarono a non rinnovare la tessera e se passavano dall'altra parte facevi presto a capirlo, bastava guardare come si vestivano, che orologio avevano, che scarpe. Li chiamavano i ragazzi dalle scarpe lucide”. Prima con Giorgio Bocca e poi in un suo libro, ne ha parlato con amarezza fiera e struggente Giuseppe Lavorato, il sindaco di Rosarno che ha visto sgretolarsi l'edificio solidale e internazionalista di questa porzione del proletariato calabrese: la lunga stagione delle lotte bracciantili si è convertita nella caccia al nero. Una parabola atroce. Il grido di Lavorato rimane largamente inascoltato e anche l'intellettualità della sinistra non sembra così allarmata.
Mario Dellacqua
GIOVANNI ARRIGHI-FORTUNATA PISELLI, Il capitalismo in un contesto ostile, Donzelli, gennaio 2017, p. 161, euro 19.
ROMANO PRODI, Il piano inclinato, il Mulino, maggio 2017, p.155, euro 13.
GIUSEPPE LAVORATO, Rosarno. Conflitti sociali e lotte politiche. In un crocevia di popoli, sofferenze e speranze. Reggio Calabria, Città del Sole edizioni, 2016.
GIORGIO BOCCA, Calabria aspra, Rubbettino, 2011, pag. 74, euro 7,90.
Nessun commento:
Posta un commento