Scrive Ada Gobetti,
ricordando la sera della liberazione di Torino, il 28 aprile 1945:
Pensavo a tutto quello che era accaduto in quella lunghissima giornata; ma pensavo soprattutto al domani. […] Confusamente intuivo […] che cominciava un’altra battaglia: più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta. Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza, la crudeltà e la violenza, – facili da individuare e odiare – ma contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire: tutte cose assai più vaghe, ingannevoli, sfuggenti. E si trattava inoltre di combattere tra di noi e dentro noi stessi, non per distruggere soltanto, ma per chiarire, affermare, creare; per non abbandonarci alla comoda esaltazione d’ideali, […] per non accontentarci di parole e di frasi, ma rinnovarci tenendoci «vivi». Si trattava insomma di non lasciare che si spegnesse nell’aria morta di una normalità solo apparentemente riconquistata, quella piccola fiamma d’umanità solidale e fraterna che avevamo visto nascere il 10 settembre e per venti mesi ci aveva sostenuti e guidati.
Sapevo […] anche che
la lotta […] non avrebbe avuto più, come prima, un suo unico,
immutabile volto, ma si sarebbe frantumata in mille forme, in mille
aspetti diversi; e ognuno avrebbe dovuto faticosamente,
tormentosamente, attraverso diverse esperienze, assolvendo compiti
diversi, umili o importanti, perseguir la propria luce e la propria
via. (Einaudi 1972)