Ma il pericolo fascista è un’esagerazione propagandistica? La ripresa
dei moti di simpatia e di riabilitazione del ventennio sono un fenomeno
marginale? Il vicesindaco di Vicenza minaccia la civiltà democratica quando
cancella da una lapide commemorativa dei partigiani caduti ogni riferimento al
nazifascismo per sostituirlo con un neutro richiamo alle “truppe d’occupazione”?
O si tratta dell’innocua rivincita di un nostalgico da liquidare sul Manifesto
con le rampogne del prof. Angelo d’Orsi?
E gli episodi di squadrismo che hanno colpito giornalisti, sindacalisti,
animatori dell’associazionismo sono manifestazioni isolate o una strategia
della violenza di fronte alla quale vale la pena attivare un’allarmata
mobilitazione democratica?
Domande come queste si affollano quando capita di intrecciare la lettura di Paolo Mieli (“Lampi sulla storia”), di Michela Murgia (“Istruzioni per diventare fascisti”) e di Antonio Scurati (“M il figlio del secolo”).
Domande come queste si affollano quando capita di intrecciare la lettura di Paolo Mieli (“Lampi sulla storia”), di Michela Murgia (“Istruzioni per diventare fascisti”) e di Antonio Scurati (“M il figlio del secolo”).
IL FASCISMO E IL PIGRO - Per Paolo Mieli, Salvini e i suoi non sono
fascisti. All’orizzonte non si profila alcuna dittatura con la soppressione
violenta delle libertà di voto, di culto, di stampa e di associazione.
Piuttosto, evocare il fantasma del regime è un alibi dietro al quale la
sinistra nasconde la sua incapacità di guardare in faccia la sconfitta subita.
Ma ne cura malamente le ferite se ripesca, nei miti del passato, combattività
un tempo risolutive e oggi inefficaci. Un’invasione arbitraria del presente nel
passato.
Per Michela Murgia, “fascista è chi il fascista
fa”, perché il fascismo è un virus dormiente nel ventre molle
della modernità, sempre pronto a risvegliarsi (la gobettiana “autobiografia
della nazione”) e a esplodere con le sue energie distruttrici. E’
un prodotto che Mussolini non ha creato, ma “tratto dall’inconscio
degli italiani”. E’ un mostro sempre pronto a sfigurare la
democrazia o a svuotarla con moderni strumenti di controllo e di circolazione
di messaggi introiettati o inconsapevolmente veicolati. Se il fascismo è un
metodo che avanza ogni qualvolta conquista popolarità l’idea che si possono
risolvere i conflitti mediante la violenta eliminazione dell’avversario, Murgia
trova ad aspettarlo l’obiezione di Mieli. Il quale dice: ecco la nostra “pigrizia
mentale”, ecco “lo stereotipo” che “cela la verità
e crea un eroe o un demone”
laddove “non esistono incarnazioni del bene e
del male” convocabili dal passato per esprimere una condanna
assoluta nelle lotte del presente per il potere.
IL FASCISMO DILATATO - Michela Murgia ha il brillante merito di
scandagliare luoghi comuni, semplificazioni, rimozioni, rimpicciolimenti,
ingrandimenti, traslochi e generalizzazioni che contrassegnano la trionfante
vulgata populista. L’uomo contemporaneo deve essere nuovamente educato a vivere
nella violenza del linguaggio e dei comportamenti. Un nero che compie un reato,
ad esempio, rappresenta tutti gli altri stranieri, mentre il buono è
un’eccezione. Il bianco è invece preliminarmente estraneo al crimine. Se
incappa in un deprecabile episodio, il bianco è una scheggia impazzita, un
folle che rappresenta solo se stesso. Molto convincente. Ma, con le 65
proposizioni del suo “fascistometro”, Murgia finisce per produrre una
dilatazione smisurata. Il fascismo diventa un habitus mentale che
trasversalmente insidia tutti i protagonisti della lotta politica quando
trasforma in nemici chiunque contenda il passo alla tua ascesa politica.
IL FASCISMO E IL DIALOGO - Per combattere il mito della P38 e il
fascino della “geometrica potenza di via Fani”,
nella seconda metà degli anni Settanta, Enrico Berlinguer coniò il “diciannovismo”
e Romano Luperini parlava di ricomparsa del culto dannunziano per il gesto
esemplare. Ognuno vede che la malattia non è stata debellata. Che cosa aveva in
testa l’insegnante torinese che immaginava di fermare Casa Pound apostrofando i
poliziotti con affabulazioni escrementizie e rinvii al dovere di morire? Che
quella storia non sia finita lo dimostra la facilità con cui iena, bestia,
carogna, urango, rottame, barbaro, razzista, ignorante e, naturalmente, anche fascista
diventa chiunque appartenga (o no) a quel 60% di italiani oggi sostenitori del
governo legastellato.
Con quel bagaglio di epiteti pensiamo forse di imboccare la scorciatoia
capace di mettere quel 60% in condizione di non nuocere scavalcando la faticosa
apertura di un dialogo argomentativo? Come al solito, è una scorciatoia che
allunga.
IL FASCISMO DIUTURNO - Eppure, le sintonie fra il ventennio e la brutta
aria che tira oggi sono evidenti: la propaganda incessante spesso ingannevole o
menzognera, la semplificazione in brevi slogan di problemi complessi, il voto
popolare come sorgente del diritto ad attribuirsi un potere che si identifica
nello stato. Per Domenico Starnone
“non è il fascismo che torna e nemmeno il nazismo, ma piuttosto i loro
ingredienti di base”. Capita che “troppa gente si muove, s’imbarca e
marcia, e bisogna convincerla a stare al posto suo in disciplinata attesa delle
briciole”. Mieli le chiama “affinità
tematiche” e non le connette solo con il fascismo, ma anche con altre
preesistenti manifestazioni delle destre. Impossibile non vedere, ad esempio,
le forme di razzismo e le vocazioni militariste covate nel seno degli Stati
coloniali europei ammantati di liberalismo, ma convinti della necessità etica
della guerra per evitare all’umanità il declino della corruzione regalata da
troppi anni di ininterrotto benessere. Impossibile non vedere nella “Grande
proletaria” di Pascoli che nel 1911 si muoveva alla conquista della
Libia la retorica immagine protofascista di una bambina che scambia per “balocchi
fragorosi e luminosi” le granate rombanti sulla sua culla
di “figlia della guerra”: il bersagliere protegge, copre e
nutre quella “faccetta nera” ante litteram perché “crescerà
italiana”.
IL FASCISMO UNA VOLTA PER TUTTE - Nonostante ciò, sarebbe
irresponsabile sottovalutare la piena cittadinanza conquistata dalla convivenza
fra venerazione del capo e fabbricazione del capro espiatorio. da calpestare”(p. 302).
Scurati avrebbe scritto queste righe illuminanti dell’Italia dei primi anni
Venti se non fosse costretto a respirare la tristezza avvelenata che inquina le
stagioni di questo 2018? Indebita e arbitraria interferenza delle urgenze
dell’oggi nelle ombre del passato? Forse quelle ombre ci aiutano a illuminare
la nostra travagliata comprensione del presente.
D’altra parte, è chiaro che la storia non è un prodotto dato una volta
per tutte, ma è sempre il risultato di nuove acquisizioni, di nuove domande, di
nuove interpretazioni. E, a buon diritto, vanno serenamente messi nel conto
anche i nuovi condizionamenti subiti dal contesto in cui operano gli stessi
ricercatori. Valga per tutti il rilievo attribuito alla vicenda delle foibe,
assai debole nei decenni precedenti, ma oggi affrontata da una storiografia
antifascista più libera dal dovere morale di proteggere i monumenti della
Resistenza a tutti i costi: anche a quello, alla lunga micidiale, di negare
l’evidenza. Saper vedere le macchie sulla storia e sul corpo delle vittime è
indispensabile per salvarne l’anima e per distinguerle dai carnefici della
libertà.
IL FASCISMO DALLE SCISSIONI - Ecco perché la lettura del libro di
Scurati risulta, ad un tempo, sconvolgente e creativa. Ernesto Galli della
Loggia non gli ha perdonato di aver sostituito Pascoli con Carducci e altri
errori che non sono bastati ad oscurare il grande successo e i grandi meriti
dell’opera.
La finzione narrativa è infatti originalmente mescolata con l’adozione
del punto di vista del protagonista, liberato dal gravame di pregiudizi
demolitivi, apologetici o assolutori. La
vivace abbondanza delle fonti documentarie impiegate conduce ad escludere ogni
rivisitazione consolatoria e guadagna una radiografia impietosa degli eventi.
E’ sconvolgente scoprire quanto dure e crudeli fossero nella pianura padana le
lotte bracciantili, divampate in una terra dove “si piange(va) la
morte della vacca rassegnandosi a quella
della moglie” (p.241): le leghe contadine incendiavano le cascine
e lasciavano morire le mucche quando “il callo alle mani
spadroneggiava” con le sue “baronie rosse” (p.193 e
221-2). E’ sconvolgente dover prendere atto che i socialisti aggredivano la
gente che andava a messa e esercitavano sul voto un controllo militare fatto di
vessazioni e di intimidazioni armate di bastoni (p.242): ciò prima che
Matteotti – il moderato, il riformista - denunciasse con la sua voce solitaria
in Parlamento i brogli degli squadristi. E’ sconvolgente l’episodio della
pistola di Terracini messa nelle mani di Nicola Bombacci (il Cristo degli
operai, il Lenin di Romagna finito a piazzale Loreto) al Congresso di Livorno
per sfidare un delegato siciliano colpevole di aver attaccato le direttive di
Mosca “in nome della libertà di pensiero
e dell’unità d’azione” (p. 309). E’ sconvolgente trovare
conferma che la vocazione alla rissa è antica nel movimento operaio italiano.
Quella scissione fu “demenziale”, scrive Scurati a p.427. Ma è creativo approdare, anche
grazie a queste letture, alla constatazione che la sconfitta preparatrice del
fascismo non va esclusivamente attribuita – come spesso vuole un dolente
sovraccarico di moralismo – al fuoco amico delle lacerazioni. Piuttosto, le
scissioni nascono da sconfitte già lungamente maturate e conseguite sul campo,
ma sono attuate con il bisogno disperato di attribuire agli altri la
responsabilità della disfatta.
Lo spirito della scissione, così giocato sul terreno dell’invettiva
contro il più vicino, nasconde - ma non cura - le convergenti incapacità dei
protagonisti in gara per l’egemonia di quel che resta di un esercito disarmato.
I riformisti non vollero sporcarsi le mani in troppo infide alleanze
governative e nella lunga marcia delle contrattazioni sindacali: troppi rischi
di contaminazione, di corruzione e di defatigante gradualità. I rivoluzionari rinviavano continuamente la “necessità
storica” di “fare come in Russia” ma, nel
frattempo, portavano nelle piazze una folla orgogliosa e innocente di
lavoratori che abbandonavano il campo di fronte alle aggressioni squadriste. “Il
massimalismo non vuole la partecipazione al potere e il riformismo non osa la
conquista totale del potere” (p. 188). Nessuno tra i due antagonisti sapeva
come passare dall’imponibile di manodopera alla rivoluzione.
Ma sto parlando del 1921 o del 1964 (Psiup)? O del 1977 (Pdup)? O del
1989 (Dp)? O del 1991-1995-1998-2008 (Rifondazione)? O del 2017 (Leu)? Nemico
giurato delle manipolazioni della memoria piegata ad uso e consumo delle
contese del presente, Mieli direbbe: quanti bisognosi di nuove prede sono
sempre a caccia nelle sterpaglie. Noi contadini e figli di contadini siamo
stati educati a camminare a piedi nudi sulla stoppia.
Mario Dellacqua
ANTONIO SCURATI, M Il figlio del secolo, Bompiani,
p. 848, euro 24.
PAOLO MIELI, Lampi sulla storia, Rizzoli, p. 352,
euro 20.
MICHELA MURGIA, Istruzioni per diventare fascisti,
Einaudi, p. 100, euro 12.
ANGELO D’ORSI, Sul nazifascismo ecco la memoria alla vicentina,
Il manifesto, 16 novembre 2018.
DOMENICO STARNONE, Ingredienti di base, Internazionale,
9-15 novembre 2018, p.14.
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