martedì 11 dicembre 2018

IL FASCISMO, CHIAMALO COME VUOI - TRA ANALOGIE TEMIBILI E IMPOTENZA DELLE INVETTIVE


Ma il pericolo fascista è un’esagerazione propagandistica? La ripresa dei moti di simpatia e di riabilitazione del ventennio sono un fenomeno marginale? Il vicesindaco di Vicenza minaccia la civiltà democratica quando cancella da una lapide commemorativa dei partigiani caduti ogni riferimento al nazifascismo per sostituirlo con un neutro richiamo alle “truppe d’occupazione”? O si tratta dell’innocua rivincita di un nostalgico da liquidare sul Manifesto con le rampogne del prof. Angelo d’Orsi?  E gli episodi di squadrismo che hanno colpito giornalisti, sindacalisti, animatori dell’associazionismo sono manifestazioni isolate o una strategia della violenza di fronte alla quale vale la pena attivare un’allarmata mobilitazione democratica?

Domande come queste si affollano quando capita di intrecciare la lettura di Paolo Mieli (“Lampi sulla storia”), di Michela Murgia (“Istruzioni per diventare fascisti”) e di Antonio Scurati (“M il figlio del secolo”).

IL FASCISMO E IL PIGRO - Per Paolo Mieli, Salvini e i suoi non sono fascisti. All’orizzonte non si profila alcuna dittatura con la soppressione violenta delle libertà di voto, di culto, di stampa e di associazione. Piuttosto, evocare il fantasma del regime è un alibi dietro al quale la sinistra nasconde la sua incapacità di guardare in faccia la sconfitta subita. Ma ne cura malamente le ferite se ripesca, nei miti del passato, combattività un tempo risolutive e oggi inefficaci. Un’invasione arbitraria del presente nel passato.

Per Michela Murgia, “fascista è chi il fascista fa”, perché il fascismo è un virus dormiente nel ventre molle della modernità, sempre pronto a risvegliarsi (la gobettiana “autobiografia della nazione”) e a esplodere con le sue energie distruttrici. E’ un prodotto che Mussolini non ha creato, ma “tratto dall’inconscio degli italiani”. E’ un mostro sempre pronto a sfigurare la democrazia o a svuotarla con moderni strumenti di controllo e di circolazione di messaggi introiettati o inconsapevolmente veicolati. Se il fascismo è un metodo che avanza ogni qualvolta conquista popolarità l’idea che si possono risolvere i conflitti mediante la violenta eliminazione dell’avversario, Murgia trova ad aspettarlo l’obiezione di Mieli. Il quale dice: ecco la nostra “pigrizia mentale”, ecco “lo stereotipo” che “cela la verità e crea un eroe o un demone” laddove “non esistono incarnazioni del bene e del male” convocabili dal passato per esprimere una condanna assoluta nelle lotte del presente per il potere.

IL FASCISMO DILATATO - Michela Murgia ha il brillante merito di scandagliare luoghi comuni, semplificazioni, rimozioni, rimpicciolimenti, ingrandimenti, traslochi e generalizzazioni che contrassegnano la trionfante vulgata populista. L’uomo contemporaneo deve essere nuovamente educato a vivere nella violenza del linguaggio e dei comportamenti. Un nero che compie un reato, ad esempio, rappresenta tutti gli altri stranieri, mentre il buono è un’eccezione. Il bianco è invece preliminarmente estraneo al crimine. Se incappa in un deprecabile episodio, il bianco è una scheggia impazzita, un folle che rappresenta solo se stesso. Molto convincente. Ma, con le 65 proposizioni del suo “fascistometro”, Murgia finisce per produrre una dilatazione smisurata. Il fascismo diventa un habitus mentale che trasversalmente insidia tutti i protagonisti della lotta politica quando trasforma in nemici chiunque contenda il passo alla tua ascesa politica.

IL FASCISMO E IL DIALOGO - Per combattere il mito della P38 e il fascino della “geometrica potenza di via Fani”, nella seconda metà degli anni Settanta, Enrico Berlinguer coniò il “diciannovismo” e Romano Luperini parlava di ricomparsa del culto dannunziano per il gesto esemplare. Ognuno vede che la malattia non è stata debellata. Che cosa aveva in testa l’insegnante torinese che immaginava di fermare Casa Pound apostrofando i poliziotti con affabulazioni escrementizie e rinvii al dovere di morire? Che quella storia non sia finita lo dimostra la facilità con cui iena, bestia, carogna, urango, rottame, barbaro, razzista, ignorante e, naturalmente, anche fascista diventa chiunque appartenga (o no) a quel 60% di italiani oggi sostenitori del governo legastellato.

Con quel bagaglio di epiteti pensiamo forse di imboccare la scorciatoia capace di mettere quel 60% in condizione di non nuocere scavalcando la faticosa apertura di un dialogo argomentativo? Come al solito, è una scorciatoia che allunga.

IL FASCISMO DIUTURNO - Eppure, le sintonie fra il ventennio e la brutta aria che tira oggi sono evidenti: la propaganda incessante spesso ingannevole o menzognera, la semplificazione in brevi slogan di problemi complessi, il voto popolare come sorgente del diritto ad attribuirsi un potere che si identifica nello stato. Per Domenico Starnone “non è il fascismo che torna e nemmeno il nazismo, ma piuttosto i loro ingredienti di base”. Capita che “troppa gente si muove, s’imbarca e marcia, e bisogna convincerla a stare al posto suo in disciplinata attesa delle briciole”. Mieli le chiama “affinità tematiche” e non le connette solo con il fascismo, ma anche con altre preesistenti manifestazioni delle destre. Impossibile non vedere, ad esempio, le forme di razzismo e le vocazioni militariste covate nel seno degli Stati coloniali europei ammantati di liberalismo, ma convinti della necessità etica della guerra per evitare all’umanità il declino della corruzione regalata da troppi anni di ininterrotto benessere. Impossibile non vedere nella “Grande proletaria” di Pascoli che nel 1911 si muoveva alla conquista della Libia la retorica immagine protofascista di una bambina che scambia per “balocchi fragorosi e luminosi” le granate rombanti sulla sua culla di “figlia della guerra”: il bersagliere protegge, copre e nutre quella “faccetta nera” ante litteram perché “crescerà italiana”.

IL FASCISMO UNA VOLTA PER TUTTE - Nonostante ciò, sarebbe irresponsabile sottovalutare la piena cittadinanza conquistata dalla convivenza fra venerazione del capo e fabbricazione del capro espiatorio.  da calpestare”(p. 302). Scurati avrebbe scritto queste righe illuminanti dell’Italia dei primi anni Venti se non fosse costretto a respirare la tristezza avvelenata che inquina le stagioni di questo 2018? Indebita e arbitraria interferenza delle urgenze dell’oggi nelle ombre del passato? Forse quelle ombre ci aiutano a illuminare la nostra travagliata comprensione del presente.

D’altra parte, è chiaro che la storia non è un prodotto dato una volta per tutte, ma è sempre il risultato di nuove acquisizioni, di nuove domande, di nuove interpretazioni. E, a buon diritto, vanno serenamente messi nel conto anche i nuovi condizionamenti subiti dal contesto in cui operano gli stessi ricercatori. Valga per tutti il rilievo attribuito alla vicenda delle foibe, assai debole nei decenni precedenti, ma oggi affrontata da una storiografia antifascista più libera dal dovere morale di proteggere i monumenti della Resistenza a tutti i costi: anche a quello, alla lunga micidiale, di negare l’evidenza. Saper vedere le macchie sulla storia e sul corpo delle vittime è indispensabile per salvarne l’anima e per distinguerle dai carnefici della libertà.

IL FASCISMO DALLE SCISSIONI - Ecco perché la lettura del libro di Scurati risulta, ad un tempo, sconvolgente e creativa. Ernesto Galli della Loggia non gli ha perdonato di aver sostituito Pascoli con Carducci e altri errori che non sono bastati ad oscurare il grande successo e i grandi meriti dell’opera.

La finzione narrativa è infatti originalmente mescolata con l’adozione del punto di vista del protagonista, liberato dal gravame di pregiudizi demolitivi, apologetici o assolutori.  La vivace abbondanza delle fonti documentarie impiegate conduce ad escludere ogni rivisitazione consolatoria e guadagna una radiografia impietosa degli eventi. E’ sconvolgente scoprire quanto dure e crudeli fossero nella pianura padana le lotte bracciantili, divampate in una terra dove “si piange(va) la morte della vacca rassegnandosi a quella della moglie” (p.241): le leghe contadine incendiavano le cascine e lasciavano morire le mucche quando “il callo alle mani spadroneggiava” con le sue “baronie rosse” (p.193 e 221-2). E’ sconvolgente dover prendere atto che i socialisti aggredivano la gente che andava a messa e esercitavano sul voto un controllo militare fatto di vessazioni e di intimidazioni armate di bastoni (p.242): ciò prima che Matteotti – il moderato, il riformista - denunciasse con la sua voce solitaria in Parlamento i brogli degli squadristi. E’ sconvolgente l’episodio della pistola di Terracini messa nelle mani di Nicola Bombacci (il Cristo degli operai, il Lenin di Romagna finito a piazzale Loreto) al Congresso di Livorno per sfidare un delegato siciliano colpevole di aver attaccato le direttive di Mosca “in nome della libertà di pensiero e dell’unità d’azione” (p. 309). E’ sconvolgente trovare conferma che la vocazione alla rissa è antica nel movimento operaio italiano. Quella scissione fu “demenziale”, scrive Scurati   a p.427. Ma è creativo approdare, anche grazie a queste letture, alla constatazione che la sconfitta preparatrice del fascismo non va esclusivamente attribuita – come spesso vuole un dolente sovraccarico di moralismo – al fuoco amico delle lacerazioni. Piuttosto, le scissioni nascono da sconfitte già lungamente maturate e conseguite sul campo, ma sono attuate con il bisogno disperato di attribuire agli altri la responsabilità della disfatta.

Lo spirito della scissione, così giocato sul terreno dell’invettiva contro il più vicino, nasconde - ma non cura - le convergenti incapacità dei protagonisti in gara per l’egemonia di quel che resta di un esercito disarmato. I riformisti non vollero sporcarsi le mani in troppo infide alleanze governative e nella lunga marcia delle contrattazioni sindacali: troppi rischi di contaminazione, di corruzione e di defatigante gradualità.  I rivoluzionari rinviavano continuamente la “necessità storica” di “fare come in Russia” ma, nel frattempo, portavano nelle piazze una folla orgogliosa e innocente di lavoratori che abbandonavano il campo di fronte alle aggressioni squadriste. “Il massimalismo non vuole la partecipazione al potere e il riformismo non osa la conquista totale del potere” (p. 188). Nessuno tra i due antagonisti sapeva come passare dall’imponibile di manodopera alla rivoluzione.

Ma sto parlando del 1921 o del 1964 (Psiup)? O del 1977 (Pdup)? O del 1989 (Dp)? O del 1991-1995-1998-2008 (Rifondazione)? O del 2017 (Leu)? Nemico giurato delle manipolazioni della memoria piegata ad uso e consumo delle contese del presente, Mieli direbbe: quanti bisognosi di nuove prede sono sempre a caccia nelle sterpaglie. Noi contadini e figli di contadini siamo stati educati a camminare a piedi nudi sulla stoppia.

Mario Dellacqua



ANTONIO SCURATI, M Il figlio del secolo, Bompiani, p. 848, euro 24.

PAOLO MIELI, Lampi sulla storia, Rizzoli, p. 352, euro 20.

MICHELA MURGIA, Istruzioni per diventare fascisti, Einaudi, p. 100, euro 12.

ANGELO D’ORSI, Sul nazifascismo ecco la memoria alla vicentina, Il manifesto, 16 novembre 2018.

DOMENICO STARNONE, Ingredienti di base, Internazionale, 9-15 novembre 2018, p.14.

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