lunedì 7 gennaio 2019

UNA DONNA NELLO SPIRITO DELLA RESISTENZA

Quando escono di casa, certe donne sono strepitose. Non voglio evocare le presenze eroiche scolpite nei monumenti lasciati dalla grande storia. E so di rischiare la prevedibile retorica a favore delle meno conosciute, le protagoniste oscure in terza fila. Quelle lontane dalle avvenenze della carta patinata e dei teleschermi. Quelle alla larga dalle leadership. Ugualmente, grazie alla “Resistenza perfetta” di Giovanni De Luna, provo a riattivare la memoria di Leletta d’Isola che, dal “Palas” della sua famiglia aristocratica e monarchica a Villar di Bagnolo, si gettò nella Resistenza partigiana. La sua esile figura di ragazza precocemente consapevole di una serena e irremovibile vocazione religiosa seppe originalmente incrociarsi con il dovere di combattere, non di aspettare.
 
Tra Barge, Bagnolo, Paesana, Montoso resistono boschi di faggio e di castagno, cascinali dal tetto di lose, sentieri rocciosi e funghi per grandi libagioni. Ma oggi questa terra è pacifico feudo leghista, capace di convivere con i cinesi che hanno trovato lavoro nelle cave di pietra, mentre i giovani del posto stanno al computer o vanno all’Università. Qui, nella valle Po ai piedi del Monte Bracco, la memoria della Resistenza è lasciata riposare come le ruote dei suoi vecchi mulini abbandonati. La potenza del suo esempio non agita le piazze. Non disturba la puntuale stanchezza delle cerimonie ufficiali. Non muove provocatori fermenti giovanili.
Giovanni De Luna l’ha voluta provocatoriamente chiamare “Resistenza perfetta”, non perché geneticamente immune da macchie, ma perché in quei venti mesi “tutti hanno cercato di dare il meglio di sé, politicamente e umanamente”.

E ciò nonostante una furibonda “rabbia demolitoria” sia protesa a seppellire sotto una “valanga di fango e di detriti” le ragioni dei combattenti, “nel contesto inopinatamente favorevole dell’Italia nata dalla sconfitta” del nazifascismo.

Erano 9-10mila a dicembre ‘43, 120-130mila nei giorni della liberazione e 250mila subito mal contati dopo il 25 aprile (p. 114). Erano comunisti, cattolici, socialisti, monarchici, azionisti, anarchici. O niente di tutto questo. Giovanni De Luna trova vicini Leletta e Pompeo Colaianni, il leggendario comandante Barbato. La cattolica e il comunista. Ma il compromesso storico ante litteram non c’entra. C’era la scelta di prestare il meglio di sé per la libertà della propria gente. Barbato era colto, audace e prestigioso perché condivideva con i suoi uomini i rischi delle imprese e gli stenti degli inverni affamati. Leletta non si lasciò mai tentare “da un ascetismo fine a se stesso”. Nei comunisti vedeva “degli apostoli, degli idealisti che ricreano l’anima in un momento in cui l’umanità è così vuota e tragicamente sofferente” (p. 124). Don Michele Lerda, vicario di Revello, aveva accolto il comandante Barbato investendolo con l’evangelico “Tu es Petrus”. La fraternità della collaborazione scaturiva spontanea dalla necessità quotidiana di approvvigionare le bande, curare i feriti, nascondere le armi e i ricercati, guardarsi dalle spie, rispettare la parola data ai contadini che ti aiutavano. De Luna osserva che ciò avveniva malgrado “i massacri della guerra civile spagnola” avessero “scavato un solco sanguinoso e incolmabile” fra cattolici e comunisti. E ciò non dice solo quanto grande sia stata la lungimiranza di quei combattenti. Dice anche quanto, nella cinica Italia di queste stagioni, siano piccoli i nostri immarcescibili settarismi pur corredati da perentori richiami allo spirito unitario della Resistenza e ai valori comuni della Costituzione la cui dimenticanza rimproveriamo volentieri solo ad altri.

Leletta diventò suor Consolata, poi professoressa di Filosofia nei Licei, infine terziaria domenicana che scelse castità e povertà fuori dalle mura di un convento. Il suo “Diario” fu pubblicato nel luglio del 1993, un mese prima della sua morte. Nel 2012 è stato avviato il processo della sua beatificazione. Il cardinal Martini ha scritto che della sua vita è difficile parlare perché “mancano nella sua vita grandi eventi sociali o ecclesiali a cui abbia preso parte con una funzione di leadership. Tutta la ricchezza di questa meravigliosa creatura sta nel suo intimo, nel suo donarsi a Dio sempre più profondamente, nella sua capacità di ascoltare gli altri, i loro problemi e le loro sofferenze e di dare a tutti una risposta giusta” (p. 214-215).

Natale Spirito Novena, ad esempio, esprimeva un’altra antropologia insieme con gerarchi come i Racca e i Del Dosso. Novena era il comandante delle Brigate nere che terrorizzò le valli del pinerolese e la pianura. Fucilò i fratelli Carando e Leo Lanfranco a Villafranca con una sventagliata di mitra sul volto. A Lanfranco infilò un ferro rovente negli occhi (p. 158). Accusato di 195 omicidi, fu salvato dal linciaggio popolare grazie alla fermezza dei garibaldini di Petralia a Vigone, a Bagnolo, a Campiglione, a Villafranca. Processato e condannato all’ergastolo, uscì dal carcere negli anni ‘50 grazie all’amnistia del guardasigilli Togliatti, le cui indulgenze a catena suscitarono nel 1952 persino l’indignazione di Mario Scelba (p. 197). Non dobbiamo temere chi parla molto del sangue dei vinti e dell’ondata di vendette private che si scatenò “sulle macerie della legalità” (p. 185). Ma non possiamo lasciare in pace la memoria di aguzzini come Novena, che morì nel 1979 a Velletri dove lavorava a un distributore di benzina.

Va di moda dire che, tolto il madornale errore della guerra, il fascismo ha anche fatto cose buone. E la stessa persona non si sogna di riconoscere che, con tutti i loro difetti, i partigiani hanno fatto cosa migliore liberando il nostro paese dalla dittatura.

Con grande amarezza, De Luna osserva che “un sistema politico privo di credibilità cerca di legittimarsi attraverso un processo alla Resistenza mirato a espungerla dalla tavola fondativa della nostra democrazia” (p. 217). Espresso sugli anni Novanta, il giudizio purtroppo vale ancora oggi.

Ogni generazione ha le sue amarezze da combattere, non da consolare.

Mario Dellacqua
GIOVANNI DE LUNA, La Resistenza perfetta, Feltrinelli 2015, pp. 254.



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