Quando
escono di casa, certe donne sono strepitose. Non voglio evocare le
presenze eroiche scolpite nei monumenti lasciati dalla grande storia.
E so di rischiare la prevedibile retorica a favore delle meno
conosciute, le protagoniste oscure in terza fila. Quelle lontane
dalle avvenenze della carta patinata e dei teleschermi. Quelle alla
larga dalle leadership. Ugualmente, grazie alla “Resistenza
perfetta”
di Giovanni De Luna, provo a riattivare la memoria di Leletta
d’Isola che, dal “Palas”
della sua famiglia aristocratica e monarchica a Villar di Bagnolo, si
gettò nella Resistenza partigiana. La sua esile figura di ragazza
precocemente consapevole di una serena e irremovibile vocazione
religiosa seppe originalmente incrociarsi con il dovere di
combattere, non di aspettare.
Tra
Barge, Bagnolo, Paesana, Montoso resistono boschi di faggio e di
castagno, cascinali dal tetto di lose,
sentieri rocciosi e funghi per grandi libagioni. Ma oggi questa terra
è pacifico feudo leghista, capace di convivere con i cinesi che
hanno trovato lavoro nelle cave di pietra, mentre i giovani del posto
stanno al computer o vanno all’Università. Qui, nella valle Po ai
piedi del Monte Bracco, la memoria della Resistenza è lasciata
riposare come le ruote dei suoi vecchi mulini abbandonati. La potenza
del suo esempio non agita le piazze. Non disturba la puntuale
stanchezza delle cerimonie ufficiali. Non muove provocatori fermenti
giovanili.
Giovanni
De Luna l’ha voluta provocatoriamente chiamare “Resistenza
perfetta”,
non perché geneticamente immune da macchie, ma perché in quei venti
mesi “tutti
hanno cercato di dare il meglio di sé, politicamente e umanamente”.
E
ciò nonostante una furibonda “rabbia
demolitoria”
sia protesa a seppellire sotto una “valanga
di
fango
e
di
detriti”
le ragioni dei combattenti, “nel
contesto inopinatamente favorevole dell’Italia nata dalla
sconfitta”
del nazifascismo.
Erano
9-10mila a dicembre ‘43, 120-130mila nei giorni della liberazione e
250mila subito mal contati dopo il 25 aprile (p. 114). Erano
comunisti, cattolici, socialisti, monarchici, azionisti, anarchici. O
niente di tutto questo. Giovanni De Luna trova vicini Leletta e
Pompeo Colaianni, il leggendario comandante Barbato. La cattolica e
il comunista. Ma il compromesso storico ante
litteram
non c’entra. C’era la scelta di prestare il meglio di sé per la
libertà della propria gente. Barbato era colto, audace e prestigioso
perché condivideva con i suoi uomini i rischi delle imprese e gli
stenti degli inverni affamati. Leletta non si lasciò mai tentare “da
un ascetismo fine a se stesso”.
Nei comunisti vedeva “degli
apostoli, degli idealisti che ricreano l’anima in un momento in cui
l’umanità è così vuota e tragicamente sofferente”
(p. 124). Don Michele Lerda, vicario di Revello, aveva accolto il
comandante Barbato investendolo con l’evangelico “Tu
es
Petrus”.
La fraternità della collaborazione scaturiva spontanea dalla
necessità quotidiana di approvvigionare le bande, curare i feriti,
nascondere le armi e i ricercati, guardarsi dalle spie, rispettare la
parola data ai contadini che ti aiutavano. De Luna osserva che ciò
avveniva malgrado “i
massacri della guerra civile spagnola”
avessero “scavato
un solco sanguinoso e incolmabile”
fra cattolici e comunisti. E ciò non dice solo quanto grande sia
stata la lungimiranza di quei combattenti. Dice anche quanto, nella
cinica Italia di queste stagioni, siano piccoli i nostri
immarcescibili settarismi pur corredati da perentori richiami allo
spirito unitario della Resistenza e ai valori comuni della
Costituzione la cui dimenticanza rimproveriamo volentieri solo ad
altri.
Leletta
diventò suor Consolata, poi professoressa di Filosofia nei Licei,
infine terziaria domenicana che scelse castità e povertà fuori
dalle mura di un convento. Il suo “Diario”
fu pubblicato nel luglio del 1993, un mese prima della sua morte. Nel
2012 è stato avviato il processo della sua beatificazione. Il
cardinal Martini ha scritto che della sua vita è difficile parlare
perché “mancano
nella sua vita grandi eventi sociali o ecclesiali a cui abbia preso
parte con una funzione di leadership. Tutta la ricchezza di questa
meravigliosa creatura sta nel suo intimo, nel suo donarsi a Dio
sempre più profondamente, nella sua capacità di ascoltare gli
altri, i loro problemi e le loro sofferenze e di dare a tutti una
risposta giusta” (p. 214-215).
Natale
Spirito Novena, ad esempio, esprimeva un’altra antropologia insieme
con gerarchi come i Racca e i Del Dosso. Novena era il comandante
delle Brigate nere che terrorizzò le valli del pinerolese e la
pianura. Fucilò i fratelli Carando e Leo Lanfranco a Villafranca con
una sventagliata di mitra sul volto. A Lanfranco infilò un ferro
rovente negli occhi (p. 158). Accusato di 195 omicidi, fu salvato dal
linciaggio popolare grazie alla fermezza dei garibaldini di Petralia
a Vigone, a Bagnolo, a Campiglione, a Villafranca. Processato e
condannato all’ergastolo, uscì dal carcere negli anni ‘50 grazie
all’amnistia del guardasigilli Togliatti, le cui indulgenze a
catena suscitarono nel 1952 persino l’indignazione di Mario Scelba
(p. 197). Non dobbiamo temere chi parla molto del sangue dei vinti e
dell’ondata di vendette private che si scatenò “sulle
macerie
della
legalità”
(p. 185). Ma non possiamo lasciare in pace la memoria di aguzzini
come Novena, che morì nel 1979 a Velletri dove lavorava a un
distributore di benzina.
Va
di moda dire che, tolto il madornale errore della guerra, il fascismo
ha anche fatto cose buone. E la stessa persona non si sogna di
riconoscere che, con tutti i loro difetti, i partigiani hanno fatto
cosa migliore liberando il nostro paese dalla dittatura.
Con
grande amarezza, De Luna osserva che “un
sistema politico privo di credibilità cerca di legittimarsi
attraverso un processo alla Resistenza mirato a espungerla dalla
tavola fondativa della nostra democrazia” (p.
217). Espresso sugli anni Novanta, il giudizio purtroppo vale ancora
oggi.
Ogni
generazione ha le sue amarezze da combattere, non da consolare.
Mario
Dellacqua
GIOVANNI
DE LUNA, La
Resistenza
perfetta,
Feltrinelli 2015, pp. 254.
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