venerdì 27 marzo 2020

LE ACLI DI DOMENICO ROSATI: QUANDO UN VECCHIO SLOGAN TORNA D’ATTUALITA’



Al di qua del partito, oltre il sindacato. Quasi circolo cattolico, ma crocevia periglioso di fortodossie e eresie in magmatico fermento. Presidio caritativo di assistenza nelle periferie sociali, ma colosso e formica della cooperazione. Secondo monsignor Domenico Tardini, le Acli non erano “nè carne, né pesce”. Nelle mani della lunga presidenza di Domenico Rosati, le Acli si destreggiarono e si sinistreggiarono fra unità sindacale e compromesso storico, fra le protezioni del collateralismo democristiano e l’ardimento blasfemo della scelta socialista, fra fine traumatica dell’unità politica dei cattolici e ossequio al magistero della Chiesa, fra fedeltà atlantica e apertura a un pacifismo indipendente dai blocchi.
Giovanni Battista Montini le tenne a battesimo nel 1944 per dotare di un’identità la corrente cristiana nella Cgil unitaria: appena in tempo per fiancheggiare l’avventura della Cisl dopo la rottura seguita all’attentato a Togliatti del luglio 1948. Ma, liberata dal sovraccarico dell’egemonia comunista, la Cisl subì il lacerante dubbio fra confessionalismo e laicità: se per Guido Gonella il sindacato “o sarà cristiano o non sarà”, per Giulio Pastore era chiaro invece che il sindacato “o sarà dei lavoratori o non sarà”. In quell’occasione, un’organizzazione dalle radici confessionali come le Acli diventò guida di un tragitto aconfessionale, laico e pluralista per un sindacato destinato a  praticare un’interpretazione democratica del conflitto sociale. 
Fu il primo e non l’ultimo anello di una catena di dilemmi, ma rivelò ai protagonisti di tante tensioni che la laicità non è una virtù di tanti laici, come non tutti i preti sono clericali.  Certo, non deve essere stato agevole, prima per Emilio Gabaglio subire nel giugno 1971 la deplorazione di Paolo VI che non sopportò il “dramma” della scelta socialista di Vallombrosa (1970) e decise di allontanare dalle Acli gli assistenti ecclesiastici. E non deve essere stato gratificante, per Domenico Rosati, subire le convocazioni del cardinale torinese Anastasio Ballestrero o del milanese Giovanni Colombo che fraternamente chiedevano di “mandare via” dirigenti favorevoli alle candidature indipendenti nelle liste comuniste: Rosati riconobbe che l’omaggio al pluralismo non annullava il dovere di obbedire alla gerarchia ecclesiastica, ma rispose ai severi richiami dei porporati che lui, tra Magistero e coscienza, avrebbe accettato il primato del Magistero, che però non imponeva mai di andare contro coscienza. 
Quando tirava aria di scissioni, sia nelle Acli con Carlo Borrini nel 1972, sia nella Cisl con Vito Scalia nel 1974, sia nella Democrazia cristiana destabilizzata dagli esiti del referendum sul divorzio, Domenico Rosati arrivò a confessare più volte di essere arrivato a presiedere “non un’associazione ma un problema”. Ecco perchè, neppure in occasione del novantesimo compleanno del suo più longevo leader, il paradosso delle Acli mal si presta ai linguaggi deferenti delle celebrazioni commemorative. D’altra parte, lo sguardo a ritroso dei tanti protagonisti (ex presidenti, sindacalisti, ecclesiastici, animatori politici) riporta coralmente in primo piano l’attualità di uno slogan che non sembra invecchiato dal 1981 e che sembra illuminare le sfide dell’oggi: le domande inevase da cui nasce l’inganno dei populismi hanno davvero bisogno di “un movimento della società civile per la riforma della politica”. Non c’è altra strada percorribile, se si vuole evitare che la democrazia ceda non davanti alle spallate aggressive di un nemico esterno, ma si svuoti per l’effetto di dissanguamento di una cittadinanza sterilizzata dalla sistematica riduzione dei soggetti sociali al rango di consumatori. Di questi tempi, e da tempo immemorabile, spettatori e crocettatori quinquennali di schede sono convocati – quando va bene – per applaudire il leader in ascesa o per disarcionare il capo caduto in disgrazia. In attesa di riprendere il ciclo di malcontento-esplosione-passività.
Non è più tempo di spendersi nel “ritorno sul territorio” o nelle periferie per riacquistare sul mercato delle immagini simpatie perdute e sintonie smarrite. La riforma della politica (non evoco più l’azzardo della “rifondazione”) potrà ritrovare una sua utilità se saprà investire le sue energie elaborative, culturali, programmatiche e organizzative nella lotta per rendere la vita quotidiana più giusta e più democratica. E per incamminarsi risolutamente su questa strada, l’insediamento governativo non è la precondizione ineludibile, come pensavano quando eravamo socialdemocratici o sovietici.
Se vogliamo trovare quei 2,1 milioni di cittadini disposti a impegnarsi attivamente per conseguire l’obiettivo del cambiamento sociale, come vuole la regola del 3,5% della studiosa americana Erica Chenowet, un movimento della società civile per la riforma della politica ci serve come il pane. Ci serve una rete di movimenti e di poteri locali, aziendali, sindacali, municipali, parrocchiali, associativi in grado di alimentare controllo democratico, ispirazione, fiancheggiamento, contestazione creativa e partecipazione conflittuale o collaborativa: prendere parte nel senso di prender parola e prendere parte nel senso di prendere un pezzo di mondo, da curare se va bene e da cambiare se gira al contrario.
In fondo non è questo il nodo che stringe le sardine e le obbliga ad aprirsi o a perire? Contaminazione e sperimentazione sono le parole chiave della nuova resistenza e della nuova possibile controffensiva democratica.
Mario Dellacqua

CLAUDIO SARDO (a cura di), Cristiani di frontiera. Scritti in onore di Domenico Rosati, Diabasis edizioni 2019, p. 168, euro 13.

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