E'
un
mio
amico
(ma
questo
non
vuol
dire
niente).
E'
un
operaio
iscritto
alla
Fiom
(e
questo,
almeno
per
me,
vuol
dire
molto).
Sulla
sua
pagina
FaceBook,
accanto
ad
una
foto
di
Bersani
che
ha
sulla
fronte
una
cicatrice
con
otto
punti,
pubblica
un
commento
inquietante:
“Otto?
A
me
ne
basterebbe
uno,
in
mezzo
alla
fronte”.
Ormai
è
come
bere
un
bicchier
d'acqua.
Si
vuole
impiccare
Tizio
all'albero
più
alto.
Si
vorrebbe
dare
fuoco
a
Caio.
Si
vorrebbe
“andare
a Roma a spaccare il culo a questi infami”
e a far
saltare
Montecitorio
con
una
bomba.
Quando
il
linguaggio
della
morte
va
di
moda,
la
prima
tentazione
è
quella
di
richiamare
alla
memoria
quel
tale
che,
senza
essere
ancora
fascista,
l'11
maggio
1915 suggeriva
“per
la
salute
dell'Italia”
di
“fucilare,
dico
fucilare
nella
schiena
qualche
dozzina
di
deputati”
giacchè
“il
Parlamento
è
il
bubbone
pestifero
che
avvelena
il
sangue
della
nazione”
e
“occorre
estirparlo”.
Ma
non servono le scomuniche e i cartellini gialli. Forse, come dice una
mia amica pinerolese, “su
Facebook la gente dà il peggio di sè o chi scrive non è la crema
del mondo (senza offesa, ci sono anch'io) o è proprio lo strumento a
stimolare le espressioni peggiori, per le sue caratteristiche di
sfogo personale e solitario. Anch'io mi sono depressa e ho deciso che
le persone vere sono meglio delle virtuali, forse”.
Ma
allora, da dove viene questo desiderio di menare le mani? La mia
risposta – in attesa di un'altra più convincente – è questa. Il
mio amico sa che perdiamo 100mila posti di lavoro al mese. Vede che
gli ospedali chiudono e quelli aperti, se ora cominciano a pagare in
ritardo gli stipendi, prima o poi respingeranno anche i malati. Vede
che i giovani lavorano a singhiozzo e ha capito che la loro pensione
sarà sempre più lontana e miserabile. Vede che la scuola è usata
come un giacimento di risorse da risparmiare. E quelli come il mio
amico temono che la situazione economica sia destinata a peggiorare,
chiunque vada al governo, anche se dovesse adottare provvedimenti
drastici e radicali di redistribuzione della ricchezza. E allora il
rimedio è un grande lavacro di violenza che mandi “a
casa tutti”
e ci purifichi di tutte le responsabilità fuggite e di tutti i buoni
esempi rinviati al giro dopo.
Anche
quando si otterrà la riduzione del numero e degli stipendi dei
parlamentari, quei 120 miliardi all'anno da tirare fuori per pagare
il debito e gli interessi sul debito (come stabilito dal “Fiscal
compact” e dal pareggio di bilancio inserito in Costituzione con il
voto di tutti) premeranno sempre più sui giovani, sugli artigiani,
sulle piccole imprese, sulla salute, sulle pensioni e sulla scuola. E
finiranno per consumare lo spazio per gli investimenti e per il
futuro.
A
quel punto, sarà sempre più difficile dare uno sbocco democratico
alla crisi dei partiti e del sistema politico. Ogni invito alla
pazienza, alla gradualità, al sacrificio della mediazione e della
lotta di lunga durata, apparirà come un atto di complicità con il
nemico da deridere e da spazzare via. Già oggi si aspetta di
conquistare il 100%. Già oggi si parla di morti che parlano con cui
non vale la pena parlare. Con gli altri non si parla, non si media.
La “parte”
che
vuole diventare il “tutto”
lavora per la loro cancellazione.
In
alto, si affaccerà la prospettiva di un governo carismatico,
autoritario o tecnico. In basso, rischia di dominare la scena la
disperazione sociale del furto, dell'omicidio e del suicidio, della
guerra tra poveri contro gli extracomunitari, della violenza sulle
donne in famiglia e in tutte le altre forme. La guerriglia
metropolitana con incendio delle auto e frantumazione delle vetrine
svuoterà le piazze e darà lavoro agli avvocati. Le proteste
dimostrative dei sindacati saranno invece pacifiche, ma appariranno
un rito consunto. Più convincente il gratta e vinci e compro oro.
Chi
vorrà tenere aperta la strada di un governo democratico, dovrà
dialogare e fare i conti con la violenza, e dovrà praticare (non
accontentarsi di indicare) la via del mutuo soccorso, della
solidarietà sociale, dell'autogestione e dell'inclusione.
I
lavoratori del pubblico impiego, in particolare, sono destinati ad
essere colpiti sempre più direttamente trovandosi vittime dello
stereotipo dilagante che li vuole garantiti, inefficienti e
“fancazzisti”.
L'arma dello sciopero non romperà il loro isolamento e sarà
inefficace non per colpa della protervia dei successori di Brunetta.
A milioni di lavoratori da tempo già condannati alla precarietà
nell'indifferenza dei protetti dello Stato, non sembrerà vero (e
anzi sembrerà ora) di poter vedere che il medesimo trattamento tocca
anche ad altri. Na
vota ped' unu 'n cavallo a lu ciucciu. Una
volta ciascuno in groppa all'asino.
Una
proposta per invertire la rotta e rompere la spirale infernale di
rabbia e passiva impotenza nella quale ci vogliono cacciare? Invece
di investire in scioperi inefficaci e utili solo a confermare
l'isolamento del pubblico impiego, facciamo le manifestazioni al
sabato pomeriggio e adoperiamo il denaro risparmiato e non versato
allo Stato per costituire su base territoriale fondi autogestiti dai
lavoratori per praticare la difesa della civiltà quotidiana con
iniziative di solidarietà che aiutino chi sta peggio e stimolino gli
sfiduciati a trovare il legame tra idealità e concretezza che
abbiamo perduto. Il circolo virtuoso potrebbe riattivarsi e
riaccendere speranze nel fuoco della crisi della politica, della
forma partito e della forma sindacato che ci hanno fatto girare a
vuoto per tanti anni.
Mario
Dellacqua
difficile ma giusto.
RispondiEliminasperiamo in bene.