Fra
il 1956 e il 1968, anno di pubblicazione di questa “Democrazia della vita
quotidiana”, il movimento comunista europeo non si era ancora ripreso dal
formidabile uno-due che l'aveva messo al tappeto: proprio fuori combattimento.
Di
Stalin, l'artefice della sconfitta del nazifascismo, Kruscev aveva denunciato
in febbraio, con un rapporto segreto al XX Congresso del Pcus, crimini e culto
della personalità. Le giovani generazioni comuniste ne ricavarono l'avida
speranza in un moto di autoriforma democratica del regime sovietico. Ma
nell'inverno gelido di Budapest i carri armati russi avevano schiacciato il
pulcino nell'uovo.
Eppure
la congiuntura internazionale sembrava favorevole al superamento della guerra
fredda, grazie al carisma in parallelo di Papa Giovanni e di Kennedy. La
repressione armata della primavera di Praga nella tarda estate del 1968 spense
l'ennesima illusione.
L'ungherese
Gyorgy Lukàcs non si rassegnò alle semplificazioni, rifiutò di trovare nei
complotti e nei tradimenti la spiegazione della dèbacle e gettò le basi
di un “rinascimento marxiano” di cui sono state protagoniste non pacificate le
anime più vive del comunismo europeo. I loro percorsi ed i loro esiti furono
disparati per non dire aspramente conflittuali. Nel 1959 a Bad Godesberg, il
rovello della libertà portò la SPD
a sentenziare che per tosare la pecora bisogna nutrirla. Disse di preferire il
mercato dovunque è possibile. Previde l'intervento dello Stato solo se
necessario. Ma, meno di dieci anni dopo, le giovani generazioni ribelli
dell'Occidente liberale e opulento misero in discussione nelle fabbriche, nella
scuola, nella famiglia e nelle chiese il primato del profitto, l'ideologia del
consumo, la mercificazione della vita.
In
quelle turbolenze eretiche, Lukàcs vide aprirsi un varco per il vecchio Marx, a
condizione che lo si liberasse da insopportabili incrostazioni dogmatiche e da
catechistiche fedeltà scolastiche. La sua riflessione non si accontentò di
condannare il culto della personalità, ma demolì alla radice il modello
stalinista del partito-Stato. Non credette a chi voleva attribuire tutto il
male agli sbalorditivi difetti di un uomo alle cui eccezionali qualità fino a
pochi mesi prima era attribuito tutto il bene possibile. Riportò in primo piano la libertà della
persona umana insieme con una critica radicale del concetto liberalborghese
della libertà: la mia libertà non vede un limite, una minaccia o un ostacolo
nella libertà dell'altro, perchè considera la libertà dell'altro il requisito
vitale per l'estensione, il compimento, la realizzazione della mia stessa libertà (p.46). Nel
Manifesto comunista Marx ed Engels avevano scritto che “il libero sviluppo
di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti”.
Alla
conquista del potere come conquista del Palazzo d'Inverno (nell'accezione
leninista), come statalizzazione dei mezzi di produzione o come occupazione
della stanza dei bottoni (nell'accezione socialdemocratica), Lukàcs preferiva
la democratizzazione della vita quotidiana. La formula non c'entra niente con
la moderazione che contrappone la velocità alla pazienza, anche se nel
movimento socialista, come diceva Salvemini, sono sempre stati numerosi coloro
che non sapevano che cosa volevano, ma lo volevano subito. E non c'entra solo
la necessaria accettazione della gradualità che discende dalla consapevolezza
che nessuna conquista egualitaria, per quanto sacrosanta, può resistere se
imposta con la forza e non con il consenso. Piuttosto, al centro della
preoccupazione di Lukàcs, c'è la persuasione che le trasformazioni devono
incidere nella sfera dell'economia e della produzione: lì sorgono le
disuguaglianze che minacciano le libertà individuali e collettive. Su questo terreno si è consumato il
fallimento del modello di socialismo instaurato in Unione Sovietica a cui , tuttavia, il mondo deve riconoscere
il merito di aver impedito che l'Europa si trasformasse in un Reich
hitleriano (p.101).
Il
controllo sociale e la direzione collettiva della produzione richiedono però
una mobilitazione permanente dei lavoratori per il miglioramento della loro
vita quotidiana: “il divenir uomo dell'uomo può essere soltanto opera sua, e
però opera sua sociale” capace di superare “l'ultima, evolutissima forma
di antiumanismo (l'altro uomo come limite, come mero oggetto, come possibile
avversario o nemico per la propria prassi autorealizzativa)”. (p. 136-137).
Mario Dellacqua
G.
LUKACS, La democrazia della vita quotidiana, Manifestolibri, 2013, p.
159, euro 22.
Nessun commento:
Posta un commento