Bruxelles, Pechino, Shangai, California, Messico, Brasile,
Indonesia: abituato a vivere viaggiando tra i continenti nella privilegiata
condizione del docente universitario e del giornalista (corrispondente di “Repubblica”
o vicedirettore del “Sole 24 Ore”), per
Federico Rampini è naturale osservare i tormenti della crisi italiana con gli
occhi cosmopoliti del nomade raffinato e perennemente volto a cogliere dovunque
nel mondo periferie e centralità da esplorare, costanze illuminanti e
divergenze inspiegabili.
Il suo sguardo sprovincializzato e addestrato agli scherzi di un
continuo spaesamento, lo portano a concepire la sinistra come uno schieramento
di forze sociali che sono “sulla stessa barca in tutto il
mondo”. Perciò egli non teme di allineare e confrontare
Berlinguer e Clinton, Lama e Obama: le sconfitte degli uni interpellano gli
altri e pretendono una visione planetaria delle svolte da conquistare con il
coraggio impietoso della rottura innovativa.
E la sconfitta è arrivata, in Europa e in America, quando la
sinistra ha subito il fascino della destra che, con Ronald Reagan, vedeva nello
Stato non la soluzione da abbracciare, ma il problema da rimuovere mediante lo
smantellamento dei poteri sindacali, le privatizzazioni, lo svuotamento di ogni
spesa pubblica dilapidata nel presidio della sicurezza sociale.
Ad onor del vero, i conti tornano. La stagione dei tagli, dei
mutui sub prime e della nuovamente libera commistione fra banche commerciali e
banche di investimento (con annesso gigantesco trasferimento di risorse dai
salari alle rendite speculative e ai super stipendi milionari) si intensificò
decisamente nella prima metà degli anni Novanta con la Presidenza di Bill Clinton. “E ciò – direbbe il Poeta – non fa
d'onor poco argomento”.
Tuttavia, del modello americano, Rampini apprezza e importerebbe
in Italia l'attaccamento popolare alla legalità, la mobilità sociale e la
meritocrazia. Della medesima civiltà opulenta, però, detesta la “faccia tosta” che permette a “odiosi banchieri” di ostentare generosità umanitaria e
di staccare platealmente fior di assegni a favore della ricerca anticancro,
proprio mentre accumulano privilegi sproporzionati e clamorosi. L'avanzata
pervasiva della finanza ha generato infatti disuguaglianze intollerabili.
Piketty dice che l'un per cento più ricco ha assorbito da solo quasi il 60 per
cento della crescita totale del reddito nazionale. Prima di Lui, Rampini aveva
notato che “i redditi dell'1 per cento che sta in cima alla
piramide sono saliti dell'11 per cento in un biennio”, mentre
quelli del rimanente 99 per cento “sono scesi dello 0,4 per cento”.
Si tratta di sperequazioni “non solo moralmente inique”, ma
anche “pericolose” per la stessa efficienza
dell'economia di mercato che “si salva solo se crea un benessere
diffuso e un potere d'acquisto ben distribuito”.
Naturalmente negli Usa non mancano consumi opulenti e
spettacolari: sprechi di aria condizionata, maxi freezer, Suv
giganteschi, limousine da 12 posti che accompagnano a casa i ventenni sbronzi
del sabato sera, aeroplani usati come autobus. Ma sono come le spese
voluttuarie della Francia di Luigi XVI: nutrono gli sfarzi di un élite, ma non
costituiscono “volano di una crescita perché la platea dei consumatori è troppo ristretta”.
Dove “il povero è oggetto della benevola carità dei grandi
proprietari di fortune”, si è dimenticato, da Keynes a Henry Ford, che “i
salari alti sono più utili della carità nell'interesse stesso della crescita capitalistica”,
se si vuole allargare il mercato di sbocco a prodotti altrimenti destinati
a giacere invenduti nei magazzini.
Negli Usa come in Italia, sconfitta ed afasia delle sinistre,
secondo Rampini nascono dalla loro identificazione secolare con lo statalismo, perché
quando hanno conquistato i poteri pubblici non hanno dato buona prova di sé e
non hanno saputo realizzare un funzionamento più efficiente e più solidale
della pubblica amministrazione. E questo è “il miglior argomento a favore
delle destre”.
“Destra e sinistra – scrive
Rampini - non sono uguali davanti al malgoverno. Se rubano a
destra o se la destra non fa funzionare meglio i servizi pubblici” si
alimenta la popolarità della richiesta di smantellarli e di consegnarli ai
privati che eviteranno sprechi e anzi li faranno rendere. A furor di popolo si
griderà che lo Stato è il vero nemico e che di questo pachiderma costoso
bisogna liberarsi al più presto. Ma se “invece ruba un politico di
sinistra o se la macchina dell'amministrazione pubblica è scadente quando
governa la sinistra, il prezzo che paghiamo è altissimo, irreparabile”.
Il giudizio di Rampini potrà apparire troppo severo, perché non
tiene conto che il modello emiliano-romagnolo, estesosi in gran parte
dell'Italia centrale, ha dato fra gli anni Sessanta e Ottanta buona prova di
sé. Una robusta dialettica collaborativa fra enti locali, mondo della
cooperazione, movimento sindacale e imprese ha dato vita ad un apparato
agroindustriale votato alla modernizzazione democratica e aperto allo
sfruttamento dei vantaggi offerti dalla diversificazione produttiva.
Ma è difficile dar torto a Rampini quando denuncia che
l'occupazione dei poteri pubblici da parte delle sinistre non ha vinto e talora
neppure combattuto ampie sacche di inefficienza, clientelismi parassitari e
fenomeni disgustosi di corruzione e di malaffare.
Rampini non è però catastroficamente pessimista. Egli scommette
sulla mobilitazione dei giovani e della società civile. La chiama “resilienza”. Se ho capito bene, è capacità di
governare una fase di perenne instabilità e turbolenza passando “attraverso errori, tentativi, adattamenti, apprendimenti. E' dai
fallimenti e dagli insuccessi che impariamo a crescere”.
D'accordo, ma come mi ha detto una volta Tony Ferigo, “quand'è che cominciamo a fare errori nuovi?”.
Mario Dellacqua
FEDERICO RAMPINI, Alla mia Sinistra, Mondadori, 2011
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