Forse si chiamava Paoletti o Paolini, non ricordo più. Era la primavera o l’inizio dell’estate del 1981. Dopo gli apocalittici 35 giorni, Democrazia Proletaria mi aveva mandato da Torino a raccontare ai compagni modenesi la mia esperienza di operaio Fiat finito in cassa integrazione a zero ore insieme ad altri 24mila. Non ricordo nulla di ciò che dissi e ascoltai in quella serata. Che strano: ricordo invece gli scampoli di una conversazione che allora mi sembrò marginale. Paoletti (o Paolini) mi mise in guardia dopo aver notato l’ammirazione che non nascondevo per l’efficienza organizzativa del Pci in quella regione, per il suo radicamento popolare, per il prestigio delle sue istituzioni cooperativistiche, per i successi innegabili conseguiti dalle sue amministrazioni e per la solidarietà che teneva unito il suo corpo militante. “Tutto vero – mi apostrofò il modenese – molto uniti tra di loro, ma anche molto chiusi e piuttosto razzisti verso i meridionali”.
Lasciai perdere. Considerai esagerate e venate di superficialità quelle osservazioni. Però l’episodio è tornato a rimbalzare con prepotenza irriverente nel mio cervello in due occasioni. Nella prima occasione mi sono imbattuto sul Manifesto in un lettore che si domandava come potevano aver militato nello stesso partito per tanti anni uomini oggi estimatori talvolta entusiasti di Salvini. Nella seconda occasione, ho letto di Anna Foa nella sua “La famiglia F.”, il riferimento al soggiorno modenese del padre Vittorio presso la Facoltà di Economia: “Era una città tutta comunista, ma anche profondamente razzista verso quegli studenti che venivano dal Sud, non a caso chiamati ‘maruchein’, marocchini”.
Tutte singolari coincidenze o qualcosa di più? Mi vien da pensare che se non avessimo confuso la parte con il tutto, avremmo evitato tante spiacevoli sorprese e tragiche frustrazioni nel vedere i cosiddetti “quarantamila” irrompere a Torino nell’ottobre 1980 o i difensori della Costituzione nel referendum del 2016 che due anni dopo salutano in Salvini l’amico ritrovato. Ivi compresi i meridionali coperti di insulti fino all’altro ieri da cori leghisti come questo: "Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani. O colerosi, terremotati, voi col sapone non vi siete mai lavati". Evidentemente insultare rende. Basta chiedere scusa “in ginocchio”. Basta offrire a chi è stato disprezzato qualcun altro da disprezzare allo stesso modo, ma insieme: dieci anni dopo, chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto.
Ricostruendo la storia della sua famiglia lungo il Novecento, Anna Foa ci offre altre riflessioni utili e stimolanti. “Il buonismo – scrive - è un termine dispregiativo che ricorda il pietismo con cui nel 1938 si designavano, per squalificarli, gli italiani amici degli ebrei. Come se essere giusti e generosi fosse una devianza illegale da reprimere”. E infatti si criminalizzano comportamenti solidali verso i migranti. Secondo alcuni, rifocillarli nella propria baita in montagna o soccorrerli in mare, configura il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Vedi le ONG diventate taxi del mare o vicescafisti. Vedi il sindaco di Riace Domenico Lucano.
Mario Dellacqua
Lasciai perdere. Considerai esagerate e venate di superficialità quelle osservazioni. Però l’episodio è tornato a rimbalzare con prepotenza irriverente nel mio cervello in due occasioni. Nella prima occasione mi sono imbattuto sul Manifesto in un lettore che si domandava come potevano aver militato nello stesso partito per tanti anni uomini oggi estimatori talvolta entusiasti di Salvini. Nella seconda occasione, ho letto di Anna Foa nella sua “La famiglia F.”, il riferimento al soggiorno modenese del padre Vittorio presso la Facoltà di Economia: “Era una città tutta comunista, ma anche profondamente razzista verso quegli studenti che venivano dal Sud, non a caso chiamati ‘maruchein’, marocchini”.
Tutte singolari coincidenze o qualcosa di più? Mi vien da pensare che se non avessimo confuso la parte con il tutto, avremmo evitato tante spiacevoli sorprese e tragiche frustrazioni nel vedere i cosiddetti “quarantamila” irrompere a Torino nell’ottobre 1980 o i difensori della Costituzione nel referendum del 2016 che due anni dopo salutano in Salvini l’amico ritrovato. Ivi compresi i meridionali coperti di insulti fino all’altro ieri da cori leghisti come questo: "Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani. O colerosi, terremotati, voi col sapone non vi siete mai lavati". Evidentemente insultare rende. Basta chiedere scusa “in ginocchio”. Basta offrire a chi è stato disprezzato qualcun altro da disprezzare allo stesso modo, ma insieme: dieci anni dopo, chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto.
Ricostruendo la storia della sua famiglia lungo il Novecento, Anna Foa ci offre altre riflessioni utili e stimolanti. “Il buonismo – scrive - è un termine dispregiativo che ricorda il pietismo con cui nel 1938 si designavano, per squalificarli, gli italiani amici degli ebrei. Come se essere giusti e generosi fosse una devianza illegale da reprimere”. E infatti si criminalizzano comportamenti solidali verso i migranti. Secondo alcuni, rifocillarli nella propria baita in montagna o soccorrerli in mare, configura il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Vedi le ONG diventate taxi del mare o vicescafisti. Vedi il sindaco di Riace Domenico Lucano.
Mario Dellacqua
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