lunedì 4 febbraio 2019

Lo strapotere impotente dei diritti

E’ passata discretamente sotto silenzio l’uscita del volume in marzo. E poco clamore ha sollevato, a giugno, il licenziamento del suo autore dalla direzione del “Mattino” di Napoli ad opera di una proprietà, quella dei Caltagirone, preoccupata di non mandare troppi segnali di ostile anticonformismo al governo legastellato. Questi  “Troppi diritti” di Alessandro Barbano sono stati sommersi dall’ordinario diluvio di titoli che assediano le classifiche. La sua tesi vuole che le cause scatenanti e persistenti del declino italiano stiano in un’overdose di diritti cresciuti alla cieca, tanto protetti dalle corporazioni in nome di un malinteso omaggio all’uguaglianza, quanto incapaci di approdare all’equilibrio con i doveri corrispondenti. L’Italia è tradita dalla libertà orfana della responsabilità in tutti i campi: l’industria, la scuola, la pubblica amministrazione, la giustizia, l’informazione, l’immigrazione.
La tesi è eretica per noi eretici della sinistra, che portiamo istintivamente la mano alla pistola tutte le volte che sentiamo parlare di “compatibilità”: come se bastasse ignorarle per scavalcarle. Ce la caviamo accusando chi le affronta di aver importato a sinistra i capisaldi del pensiero liberista. E attribuiamo a questo trasferimento corsaro l’origine di gran parte delle attuali cocenti sconfitte.
Però, a dire il vero, da più parti assortite, ci avevano messo in guardia. Lasciando la direzione della Cgil piemontese per candidarsi al Parlamento, Emilio Pugno ogni tanto ricordava nella primavera del 1976 che le conquiste sindacali stavano raggiungendo il loro tetto: bisognava pensare a dare uno “sbocco politico” alle lotte di fabbrica. In un dibattito su “Nuova società” del 1973, Walter Mandelli aveva spiegato a lui, a Bertinotti e a Delpiano che si può fare la rivoluzione, ma non si può pretendere che il capitalismo continui a funzionare dopo averne determinato la crisi. Nel 1932 Vittorio Foa aveva scritto che“si può uccidere il profitto, ma mantenerlo in vita dopo averlo dissanguato, è pretesa insostenibile”.
Nel 1984 Costanzo Preve diagnosticava l’obsolescenza di un paradigma teorico che si accontentava di inseguire addirittura la maturità del comunismo fondandolo sull’alleanza tra estensione sociale di un conflitto industriale progressivamente radicalizzato e potenze della tecnologia. Il risultato rischiava di essere l’apologia del capitalismo.
Proprio palle non erano, se anche dalle bretelle di Federico Rampini si poteva apprendere nel 2011 che “il miglior argomento a favore delle destre” era la pessima prova data dalle sinistre: una volta conquistati i poteri pubblici, esse non avevano saputo realizzare un funzionamento più efficiente e solidale della pubblica amministrazione. Infatti, se la destra al potere sfascia con la corruzione i servizi pubblici, al massimo si alimenta la richiesta di smantellarli e di consegnarne le chiavi in mano ai privati. Ma il danno è irreparabile quando la sinistra rinuncia a combattere ampie sacche di inefficienza parassitaria e di degrado.
Purtroppo Barbano aumenta la dose. Sostiene che clientelismi e rendite di posizione non sono sopportate, ma addirittura alimentate dalla sinistra e dai suoi poteri corporativi ammantati di sindacalismo. Nell’opposizione alla “Buona scuola”, ad esempio, la retorica indignata della “deportazione” ha prodotto in un corpo di 770mila insegnanti la carenza di docenti in matematica al Nord e la sovrabbondanza di abilitati in diritto, musica e storia dell’arte al Sud: con l’invenzione del “potenziamento”, tutti parcheggiati nelle sale professori a leggere il giornale in attesa di sostituire i colleghi assenti nelle ore buche. I 200 milioni stanziati per premiare la professionalità sono stati assegnati a pioggia a gruppi di docenti associati dall’interesse ad aggirare il merito e a deresponsabilizzare tutti, management compreso e sollevato dal diritto a scegliere direttamente gli insegnanti (p. 97-99). L’uso “pervasivo di quiz generici” per selezionare gli accessi all’Università, inoltre, porta alla laurea“una percentuale molto vicina al 100% dei selezionati”. Ciò vuol dire che i quiz modello “Rischiatutto” non misurano competenza e professionalità, ma solo “la fortuna del candidato” in un paese dove “finora i figli dei medici hanno fatto i figli dei medici” e ciò “aumenta anzichè ridurre il privilegio di classe”. Altro che ascensore sociale.
La resistenza di questo “egualitarismo ideologico” è tuttora vittoriosa anche nei Comuni e nei Ministeri dove gli incentivi sono distribuiti a pioggia perché a fissare gli obiettivi sono i medesimi uffici abilitati a valutare se essi sono stati raggiunti.
Dovunque il controllore e il controllato si trovino a coincidere, salta il dinamismo competitivo che favorisce l’innovazione e l’efficienza. Nella scuola, abbiamo “la perdita secca” di una maggiore quantità“mal distribuita e meno qualità, al prezzo di nuovo precariato pronto a bussare alla porta” (p.98).
Il tributo a questo egualitarismo che impone di aspettare sempre chi arranca, produce “la rinuncia a fare dei migliori l’elemento trainante della società” e favorisce il compattarsi della “massa critica dei più fragili in una zavorra” (p.94).
Musica suonata sullo stesso spartito, secondo Barbano, anche nell’industria e nel mondo del lavoro privato. Dove 15 milioni di lavoratori di serie A, protetti dagli accordi sindacali, sono affiancati da più o meno la metà di lavoratori di serie B privi di tutele e abbandonati a mille forme di precarietà. Correggere la logica corporativa che porta a proteggere “chi fa parte del club degli inclusi, significherebbe ribaltare il principio dei diritti acquisiti, rimettendoli in discussione tutti”. E come? “Riducendo i costi di licenziamento – risponde Barbano – garantendo un sostegno ai disoccupati e allineando i salari alla produttività” (p.77-79).
Il rapporto fra merito e uguaglianza è un rebus niente affatto risolto dalle nostre parti.
“L’uguaglianza delle possibilità può funzionare – ha scritto Violaine Morin su “Le Monde” - se si riesce a garantire una società in cui il migliore non prende tutti lasciando le briciole di compassione al perdente. La competizione è inevitabile, ma per i perdenti è meno dura se non perdono tutto”.
Pur riconoscendo che solo l’inevitabile iniquità della spartizione della ricchezza incentiva “comportamenti che spronano all’eccellenza”, Violaine afferma però che “è sbagliato negare dignità e diritti a chi nella lotteria genetica e sociale ha il solo torto di aver avuto meno fortuna. Dobbiamo dedicarci a una cosa nuova: eliminare il disprezzo verso chi è svantaggiato dall’etica di una competizione basata sull’impegno”.
D’altra parte, lo stesso Barbano invita a tener conto degli insegnamenti di Norberto Bobbio: l’uguaglianza è un valore relativo e non assoluto. Ne possono scaturire innumerevoli – e anche contrastanti - interpretazioni pratiche perché dipendono “da almeno tre variabili: i soggetti tra i quali ci si propone di ripartire i beni; i beni da ripartire; il criterio in base al quale ripartirli”. Prendiamo l’acqua: se si afferma soltanto che deve essere gratis, siamo di fronte ad una via referendaria per la difesa del potere d’acquisto. Ma se si stabilisce che è un bene comune, bisogna anche caricarsi del dovere di stabilire chi e come la si paga. Secondo Tocqueville, “perchè gli uomini restino civili o lo divengano, bisogna che l’arte di associarsi si sviluppi e si perfezioni presso di loro nello stesso rapporto con cui si accresce l’uguaglianza delle condizioni”
Nel nostro tempo, questa è la declinazione del principio proclamato dalla Prima Internazionale del 1864: “Nessun diritto senza doveri e nessun dovere senza diritti”.
E’ un filo da torcere, se non vogliamo che diventi un cappio al nostro collo.

Mario Dellacqua


ALESSANDRO BARBANO, Troppi diritti, Mondadori, pp. 177, euro 18.
FEDERICO RAMPINI, Alla mia Sinistra, Mondadori, 2011.
VIOLAINE MOURIN, Un’utopia feroce, Le Monde, in “Internazionale”, 14 dicembre 2018, p.50-51

1 commento:

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