mercoledì 10 aprile 2013

ANCHE MICHELE GHIO NEL DIARIO PARTIGIANO DI BLUTER-MARCELLIN

A destra nella foto Maggiorino Marcellin"Bluter",
 capo delle formazioni autonome della 
val Chisone.

Non mi vergogno di dire che mi vergogno per aver letto così tardi – su consiglio di Aldo Sandullo – questo diario partigiano di Maggiorino Marcellin, il comandante della Divisione Autonoma Val Chisone intitolata al caduto Adolfo Serafino. Il fatto è che più vado avanti negli anni, più mi accorgo che su ogni cosa – anche quelle agevolmente frequentate per familiarità di studio e per affinità ideologica – sono più numerose le cose che non so di quelle che so.
Edito nel 1966 e riprodotto vent'anni dopo dai Giuseppini di Pinerolo, Alpini...finchè le gambe vi porterannosi legge come accompagnati nello strazio di una Via Crucis. La guerra partigiana in val Chisone è stata un continuo nascondersi e colpire per non essere colpiti, un'estenuante ricerca di equilibrio fra fermezza con i tuoi ragazzi trasformati dalla fame in piccole belve e dialogo con le incomprensioni di una popolazione contadina stremata dai tedeschi che blandivano e rastrellavano e dai partigiani che talvolta si davano all'arbitrio di deprecabili e ingiustificate requisizioni. Nella Via Crucis, ad alleviarti la sofferenza, ogni tanto incontravi una Veronica o un Cireneo, ma nella folla che assiste silenziosa al martirio tuo e dei tuoi compagni erano sempre numerosi quelli che al momento buono avevano preferito Barabba.

Volendo salvaguardare lo spirito della Resistenza insieme con la sua dignità di combattente, Marcellin si trova costretto in un angolo da dove sente di poter uscire solo illuminando le ombre della Resistenza. Se la Repubblica è nata dalla Resistenza, come dice la comprensibile retorica democratica del nostro dopoguerra, la Resistenza è nata da un popolo educato a stare con un piede di qua e un piede di ”. Non fu facile liberarsi dal veleno fascista e oggi possiamo riconoscere che l'opera non è da considerarsi definitivamente compiuta una volta per tutte perchè il metodo fascista, in venti anni di dittatura, aveva trasformato il carattere delle persone e tutti erano più inclini a subire che a ribellarsi”.
Quando la ribellione venne, il desiderio prepotente di cacciare lo straniero per tornare padroni a casa propria ruppe gli argini. Nella tracimazione affiorarono i detriti dell'opportunismo e delle rivalità politiche, di cui Marcellin fu nemico giurato e incorreggibile. Le speculazioni di chi si voleva prenotare un posto di prestigio per il dopoguerra corrodevano l'efficienza delle formazioni partigiane. E non si trattava solo delle aspre incomprensioni che contrapposero gli autonomi ai combattenti di colore (Garibaldini o GL), ma anche di competizioni per la leadership che avvelenarono la compattezza della stessa Val Chisone”.
Tuttavia, Marcellin non scrive per togliersi dalle scarpe (a volte erano stracci avvolti nel fil di ferro) i troppi sassolini pur accumulati in lunghe notti di morte lenta senza lamenti, notti in cui si scatena nell'uomo la bestia, l'odio, la sete di sangue...”. Nulla tace dei dissidi sulle modalità di conduzione del combattimento che indebolivano la collaborazione tra le bande e i vertici torinesi del CLN, spesso investiti per fare da pacieri. Neppure censura le intemperanze del linguaggio che talvolta lo portarono ad eccedere nella virulenza della polemica: A lavorare per me e in me – scrive - era soprattutto l'esaurimento nervoso del quale ero vittima. Certo, avrebbe voluto rinviare al dopoguerra ogni conflitto politico. Lasciava circolare liberamente i giornaletti redatti dai patrioti da divano”, ma pensava solo alla guerra. Era convinto che al patriota occorre insegnare come si maneggia un'arma e non come si crea un deputato”. Non escludeva la propaganda, ma esigeva che essa servisse unicamente a convincere della necessità del combattimento”.
Facile dal mio divano osservare ora che in questo modo si lavorava per consegnare l'anima della Resistenza ad un'èlite, creando così le condizioni per scavare tra Repubblica e masse popolari, tra addetti ai lavori e società civile, tra professionisti e portatori passivi di consenso, tra tecnici dell'economia e lavoratori incapaci di guardare oltre il salario un fossato che sembra invalicabile. Più problematico, ma anche più doveroso, riconoscere che la distinzione fra vocazione movimentista dell'ala politica e richiamo disciplinare alla responsabilità dei comandi militari ha attraversato tutti gli eserciti popolari di liberazione. E il prestigio della leadership si costruiva non quando riusciva ad imporre la prevalenza di una visione, ma quando ne sapeva amministrare l'inevitabile dialettica evitando laceranti deflagrazioni della solidarietà fra combattenti.
La testimonianza di Bluter-Marcellin è poi attraente per noi patrioti assisi sul nostro divano nonese, giacchè incontriamo più volte il capitano Pat O Regan, l'ufficiale inglese incaricato di coordinare i rapporti fra gli alleati e le formazioni partigiane. E dove c'era Pat, non poteva mancare il nostro Michele Ghio che nascondeva l'ufficiale nella sua casa all'angolo fra piazza Cavour e via Buniva. Marcellin ricorda il ruolo decisivo giocato da Ghio nel trasferimento di quattro aviatori americani fortunosamente atterrati ad Airasca. Prima Ghio li nascose nella cappella di San Ponzio, poi li traghettò nelle Langhe dove le formazioni guidate da Mauri li avrebbero fatti imbarcare su un aereo diretto a Bari. Marcellin non fa cenno, invece, all'impegno di Ghio per accogliere nottetempo nei boschi della Riserva clandestinamente illuminata, i lanci alleati di armi, munizioni e altri equipaggiamenti militari riservati alle bande partigiane operanti nel cumianese di Giulio Nicoletta e nella Val Sangone di Eugenio Fassino. Si limita a dire con sitzza: Io dagli alleati non ho mai avuto un solo lancio. La circostanza meriterebbe un approfondimento in sede di ricerca storica, perchè sono i garibaldini e i comunisti a lamentare di aver subito le peggiori discriminazioni quando si trattava di decidere la distribuzione delle armi e delle vettovaglie.
Ora, si tratta di decidere se quel combattimento sia finito e se si tratta di ricordarne gli eventi per un semplice dovere di riconoscenza e di gratitudine verso i protagonisti di allora. Io dico di no. Il combattimento non è finito. Continua, per fortuna in altre forme, per gli stessi obiettivi: tutelare la democrazia di ogni giorno, sviluppare i valori del pluralismo e della tolleranza, conquistare misure di riduzione delle disuguaglianze.

Mario Dellacqua

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