A destra nella foto Maggiorino Marcellin"Bluter", capo delle formazioni autonome della val Chisone. |
Non
mi
vergogno
di
dire
che
mi
vergogno
per
aver
letto
così
tardi
– su
consiglio
di
Aldo
Sandullo
– questo
diario
partigiano
di
Maggiorino
Marcellin,
il
comandante
della
Divisione
Autonoma
“Val
Chisone”
intitolata
al
caduto
Adolfo
Serafino.
Il
fatto
è
che
più
vado
avanti
negli
anni,
più
mi
accorgo
che
su
ogni
cosa
– anche
quelle
agevolmente
frequentate
per
familiarità
di
studio
e
per
affinità
ideologica
– sono
più
numerose
le
cose
che
non
so
di
quelle
che
so.
Edito
nel
1966 e
riprodotto
vent'anni
dopo
dai
Giuseppini
di
Pinerolo,
“Alpini...finchè
le
gambe
vi
porteranno”
si
legge
come
accompagnati
nello
strazio
di
una
Via
Crucis.
La
guerra
partigiana
in
val
Chisone
è
stata
un
continuo
nascondersi
e
colpire
per
non
essere
colpiti,
un'estenuante
ricerca
di
equilibrio
fra
fermezza
con
i
tuoi
ragazzi
trasformati
dalla
fame
in
“piccole
belve”
e
dialogo
con
le
incomprensioni
di
una
popolazione
contadina
stremata
dai
tedeschi
che
blandivano
e
rastrellavano
e
dai
partigiani
che
talvolta
si
davano
all'arbitrio
di
deprecabili
e
ingiustificate
requisizioni.
Nella
Via
Crucis,
ad
alleviarti
la
sofferenza,
ogni
tanto
incontravi
una
Veronica
o
un
Cireneo,
ma
nella
folla
che
assiste
silenziosa
al
martirio
tuo
e
dei
tuoi
compagni
erano
sempre
numerosi
quelli
che
al
momento
buono
avevano
preferito
Barabba.
Volendo
salvaguardare
lo
spirito
della
Resistenza
insieme
con
la
sua
dignità
di
combattente,
Marcellin
si
trova
costretto
in
un
angolo
da
dove
sente
di
poter
uscire
solo
illuminando
le
ombre
della
Resistenza.
Se
la
Repubblica
è
nata
dalla
Resistenza,
come
dice
la
comprensibile
retorica
democratica
del
nostro
dopoguerra,
la
Resistenza
è
nata
da
un
popolo
educato
a
stare
“con
un
piede
di
qua
e
un
piede
di
là”.
Non
fu
facile
liberarsi
dal
“veleno
fascista”
e
oggi
possiamo
riconoscere
che
l'opera
non
è
da
considerarsi
definitivamente
compiuta
una
volta
per
tutte
perchè
“il
metodo
fascista,
in
venti
anni
di
dittatura,
aveva
trasformato
il
carattere
delle
persone”
e
tutti
“erano
più
inclini
a
subire
che
a
ribellarsi”.
Quando
la
ribellione
venne,
il
desiderio
prepotente
di
cacciare
lo
straniero
per
tornare
padroni
a
casa
propria
ruppe
gli
argini.
Nella
tracimazione
affiorarono
i
detriti
dell'opportunismo
e
delle
rivalità
politiche,
di
cui
Marcellin
fu
nemico
giurato
e
incorreggibile.
Le
speculazioni
di
chi
si
voleva
prenotare
un
posto
di
prestigio
per
il
dopoguerra
corrodevano
l'efficienza
delle
formazioni
partigiane.
E
non
si
trattava
solo
delle
aspre
incomprensioni
che
contrapposero
gli
autonomi
ai
combattenti
di
colore
(Garibaldini
o
GL),
ma
anche
di
competizioni
per
la
leadership
che
avvelenarono
la
compattezza
della
stessa
“Val
Chisone”.
Tuttavia,
Marcellin
non
scrive
per
togliersi
dalle
scarpe
(a
volte
erano
stracci
avvolti
nel
fil
di
ferro)
i
troppi
sassolini
pur
accumulati
in
lunghe
“notti
di
morte
lenta
senza
lamenti,
notti
in
cui
si
scatena
nell'uomo
la
bestia,
l'odio,
la
sete
di
sangue...”.
Nulla
tace
dei
dissidi
sulle
modalità
di
conduzione
del
combattimento
che
indebolivano
la
collaborazione
tra
le
bande
e
i
vertici
torinesi
del
CLN,
spesso
investiti
per
fare
da
pacieri.
Neppure
censura
le
intemperanze
del
linguaggio
che
talvolta
lo
portarono
ad
eccedere
nella
virulenza
della
polemica:
“A
lavorare
per
me
e
in
me
– scrive
- era
soprattutto
l'esaurimento
nervoso
del
quale
ero
vittima”.
Certo,
avrebbe
voluto
rinviare
al
dopoguerra
ogni
conflitto
politico.
Lasciava
circolare
liberamente
i
“giornaletti”
redatti
dai
“patrioti
da
divano”,
ma
pensava
solo
alla
guerra.
Era
convinto
che
“al
patriota
occorre
insegnare
come
si
maneggia
un'arma
e
non
come
si
crea
un
deputato”.
Non
escludeva
la
propaganda,
ma
esigeva
che
essa
servisse
“unicamente
a
convincere
della
necessità
del
combattimento”.
Facile
dal mio divano osservare ora che in questo modo si lavorava per
consegnare l'anima della Resistenza ad un'èlite, creando così le
condizioni per scavare tra Repubblica e masse popolari, tra addetti
ai lavori e società civile, tra professionisti e portatori passivi
di consenso, tra tecnici dell'economia e lavoratori incapaci di
guardare oltre il salario un fossato che sembra invalicabile. Più
problematico, ma anche più doveroso, riconoscere che la distinzione
fra vocazione movimentista dell'ala politica e richiamo disciplinare
alla responsabilità dei comandi militari ha attraversato tutti gli
eserciti popolari di liberazione. E il prestigio della leadership si
costruiva non quando riusciva ad imporre la prevalenza di una
visione, ma quando ne sapeva amministrare l'inevitabile dialettica
evitando laceranti deflagrazioni della solidarietà fra combattenti.
La
testimonianza
di
Bluter-Marcellin
è
poi
attraente
per
noi
patrioti
assisi
sul
nostro
divano
nonese,
giacchè
incontriamo
più
volte
il
capitano
Pat
O
Regan,
l'ufficiale
inglese
incaricato
di
coordinare
i
rapporti
fra
gli
alleati
e
le
formazioni
partigiane.
E
dove
c'era
Pat,
non
poteva
mancare
il
nostro
Michele
Ghio
che
nascondeva
l'ufficiale
nella
sua
casa
all'angolo
fra
piazza
Cavour
e
via
Buniva.
Marcellin
ricorda
il
ruolo
decisivo
giocato
da
Ghio
nel
trasferimento
di
quattro
aviatori
americani
fortunosamente
atterrati
ad
Airasca.
Prima
Ghio
li
nascose
nella
cappella
di
San
Ponzio,
poi
li
traghettò
nelle
Langhe
dove
le
formazioni
guidate
da
Mauri
li
avrebbero
fatti
imbarcare
su
un
aereo
diretto
a
Bari.
Marcellin
non
fa
cenno,
invece,
all'impegno
di
Ghio
per
accogliere
nottetempo
nei
boschi
della
Riserva
clandestinamente
illuminata,
i
lanci
alleati
di
armi,
munizioni
e
altri
equipaggiamenti
militari
riservati
alle
bande
partigiane
operanti
nel
cumianese
di
Giulio
Nicoletta
e
nella
Val
Sangone
di
Eugenio
Fassino.
Si
limita
a
dire
con
sitzza:
“Io
dagli
alleati
non
ho
mai
avuto
un
solo
lancio”.
La
circostanza
meriterebbe
un
approfondimento
in
sede
di
ricerca
storica,
perchè
sono
i
garibaldini
e
i
comunisti
a
lamentare
di
aver
subito
le
peggiori
discriminazioni
quando
si
trattava
di
decidere
la
distribuzione
delle
armi
e
delle
vettovaglie.
Ora,
si tratta di decidere se quel combattimento sia finito e se si tratta
di ricordarne gli eventi per un semplice dovere di riconoscenza e di
gratitudine verso i protagonisti di allora. Io dico di no. Il
combattimento non è finito. Continua, per fortuna in altre forme,
per gli stessi obiettivi: tutelare la democrazia di ogni giorno,
sviluppare i valori del pluralismo e della tolleranza, conquistare
misure di riduzione delle disuguaglianze.
Mario Dellacqua
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