Da dove in Italia è venuto il fascismo destinato a fare scuola in
Europa per poi trascinarla in un conflitto memorabile? In quali ombre la
creatura ha visto la luce? Me lo sono sempre domandato, ma risposte ferme e
tranquillizzanti, nessuna. Forse sono tormentato da un'ossessione comparativa
fra ieri e oggi: il totalitarismo è un fantasma spaventoso definitivamente
dissolto o si è piuttosto saputo rinnovare indossando maschere accattivanti e
escogitando trucchi peggiorativi?
Se si pensa – e molti storici lo pensano – che la deflagrazione
della “Grande Guerra” abbia contrassegnato l'avvio di una novecentesca “guerra
dei trent'anni”, diventa fondamentale chiedersi quali energie agitassero
l'anima di quei ventenni e quali idee mulinassero nella loro testa prima di
muovere le loro gambe ed armare le loro braccia.
Non erano tutti uguali, ma respiravano la stessa aria e Carlo
Emilio Gadda era uno di quei giovani. Il suo “Giornale di guerra e di
prigionia” con il “Diario di Caporetto”, ripubblicato dalle Edizioni
San Paolo cento anni dopo il 1914, aiuta a comprendere l'impasto esplosivo di
ardori e di frustrazioni che accompagnò tanti giovani dall'entusiasmo per la trincea e per i “divini
momenti del pericolo” (p.353) alla rabbia per la vittoria mutilata: la
predicazione dannunziana arruolò presto nelle squadracce una gioventù
refrattaria al grigiore della vita civile perché incapace di rinunciare ai
ruoli di comando e all'uso inebriante della violenza.
UGUAGLIANZA DEI LINGUAGGI
Nel 1915 Gadda aveva 22 anni. Era un ufficiale che poteva bere
champagne e permettersi mascarpone al cognac, frutta secca, aranci. La sua
testimonianza lascia sorpreso chi, come me, erroneamente pensava che fosse
netta la distinzione fra interventismo nazionalista e interventismo
democratico. Il primo sosteneva che la guerra “sola igiene del mondo”
fosse un'avventura affascinante e necessaria per liberare l'umanità
dall'ingombro dei mediocri aspiranti al piattume parassitario dell'uguaglianza.
Il secondo vedeva nella partecipazione italiana al conflitto un dovere vitale
per completare l'opera del Risorgimento. Nella “quarta guerra di
indipendenza”, la morte poteva apparire “utile e bella” (p.161 e
184) per liberare l'Europa dall'ultima odiosa autocrazia. Il nazionalismo usava
il linguaggio incendiario dell'invettiva. L'interventismo democratico preferiva
i toni accorati e gravi dell'allarme patriottico. Entrambi erano però
accomunati dalla persuasione che la guerra fosse un momento di rigenerazione
sanguinosa ma salutare di uno spirito nazionale assopito dalle mediocrità
dell'Italietta giolittiana.
La distinzione fra i seguaci di Giovanni Papini e gli amici di
Cesare Battisti si può trovare sui manuali. Ma è una distinzione che non impedì
e anzi incoraggiò gli uni e gli altri a “gioire della superba vita del
soldato” (p.322), a sentirsi attratti dalla trincea “per quel senso di
difficoltà e durezza speciale che essa offre” (p. 271) quando non appariva
ancora una cava “da animali sotterranei” (p.71).
Il diario di Gadda, con il suo occhio di protagonista tra milioni
ancora ignaro degli sviluppi di quella pagina cruciale della storia italiana
sfociata nel ventennio, dimostra che talune pulsioni non si attutirono nello
scontro e nell'incontro, ma si moltiplicarono convivendo spesso nella stessa
persona: il fascismo nascente avrebbe poi saputo interpretare quella magmatica
aggressività offrendo una personalità e uno sbocco costituente alle energie
compresse dalle delusioni patite e dalle aspirazioni calpestate.
DISPREZZO PER L'UGUAGLIANZA
La prima pulsione scaturisce da un persistente sentimento
elitario, espresso in una persuasione ostentata di superiorità e di disprezzo
per gli “ambienti plebei” che il giovane Gadda non ha modo di frequentare
(p.91). La stagione di decadimento e di scompiglio che gli capita di vivere
deve la sua miseria alla “poca voglia di andare al fronte”, al “timore
di morire” tipico di “ladri, egoisti, poltroni, indolenti, incapaci”
che lo circondano (p.50). L'italiano è una “carogna che brontola e se la
prende coi superiori nel momento della fatica” (p.105).
AMORE PER LA PATRIA E PER LE ARMI
La seconda componente è il patriottismo legato al dovere di
impugnare le armi in una guerra “santa e necessaria” (p.101) come unica
prova convincente che si ama il proprio paese e che si sanno respingere le
tentazioni vili del pacifismo: “voglio affrontare con serenità – si
legge a p. 82 del “Diario” - la rabbia delle palle nemiche perché solo
allora il mio paese avrà un figlio non indegno”. Questa contrapposizione
ricattatoria fra “desiderio di pace” e “amor di patria” è stata
recentemente definita dal cardinale Pietro Parolin una “strumentalizzazione
messa in atto da chi nel 1914 spingeva per entrare in guerra” ed era
pertanto interessato a “sacralizzare la violenza”.
Se per D'annunzio, Giolitti meritava l'epiteto di “cagoia”,
Gadda era convinto che “dar corso a sentimenti troppo affettuosi non è da
soldato”. Non vedeva l'ora di combattere, proprio perché provvisoriamente
capitato “in un punto morto” della guerra dove “non si conclude
nulla” e si contrae la malattia della “paralisi della volontà e del
desiderio” (p.137). Sentenziava che “l'uomo deve essere uomo e non
coniglio” come quei soldati “rintanati nel buco come troje incinte” (p.143).
O come quella “masnada di vecchioni sbilenchi e di giovani pelandroni”
(p.163).
Ufficiale, Gadda sapeva di non avere la stoffa del leader perché “troppo
buono, troppo debole, troppo gentile” (p.199), ma quando la fucileria
tambureggiava e i cannoni urlavano nelle foreste, sentiva moltiplicarsi
volontà, vigore, virilità, entusiasmo in “una specie di commozione
sovrumana” che gli “pervade(va) l'anima” (p.212) e lo induceva a
detestare quanti “desiderano solo la pace a qualunque prezzo” (p.241). Un
capitano sardo lo fece inorridire perché aveva “una paura vacca” e la
scusava “con il pensiero della sua famiglia” (p. 123).
DISPREZZO PER GLI ITALIANI
Quando arriva Caporetto, “è la catastrofe”. Gadda si sente
finito come un cadavere. Aranci e frutta secca lasciano il posto all'ossessione
quotidiana della fame “continua”, “terribile”, “orrenda”, “torturante”.
Neppure questa “fame cagna” scalfisce il suo spirito elitario. Una volta
catturato e imprigionato, al massimo gioca a scacchi, ma snobba la pubblicazione
di un giornale manoscritto e l'attività teatrale dei commilitoni detenuti.
Persino gli ufficiali sono una “vile plebe” affetta da “proterva
ignoranza”. I compatrioti sono dantescamente rappresentati come la “compagnia
malvagia e scempia” che ha “consegnato la patria allo straniero”
(p.251) e “la tradirono con la loro debolezza” (p.318). Con certi “esseri
è dignità non avere rapporti”. Si sente “un bruto” (p.254), ottuso
alla commozione e vorrebbe essere “un dittatore per mandarli al patibolo”.
Riderebbe di gioia se li vedesse morire e li odia più dei tedeschi (p.375).
Accumulata l'esperienza umiliante di Caporetto e della prigionia,
consumata l'ebbrezza della vittoria e immersa nel “delirio epilettico”
della vittoria mutilata (p.404), questa generazione tornò a casa, ma non sapeva
“come fare a vivere” (p.418), specie se provata, come accadde a Carlo
Emilio Gadda, dalla morte del fratello aviatore.
DISPREZZO SOCIALISTA PER I REDUCI
Ora è facile amarezza constatarlo: invece di aprire il dialogo con
quell'universo turbolento di soggetti smarriti e rabbiosi, i socialisti
scelsero la massa dei reduci come bersaglio della loro polemica additandoli tra
i responsabili della guerra. Da allora, i reduci videro nei “rossi” una
presenza estranea ed ostile al loro micidiale malessere sociale ed
esistenziale. Spenti i bagliori del
maggio radioso, D'annunzio sarebbe tornato a dominare il proscenio. Insegnò lui
“come fare a vivere” a quella generazione che soffriva un “dolore
bestiale” e non sapeva reggere “il macigno più grave” rappresentato
dal “mancare dell'azione”, dal non potersi più “gettare nel pericolo”
amato “come l'alcolizzato ama sopra ogni cosa il veleno da che avrà la
morte” (p.364).
D'annunzio offrì il mito del gesto esemplare che esalta la
virilità dei coraggiosi e col sangue educa tutti gli altri all'obbediente
ammirazione per il capo. Mussolini, con il programma dei suoi sansepolcristi,
rafforzò l'immagine della ditta nascente proponendo la terra ai contadini, “una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere
progressivo”, una “vera espropriazione parziale
di tutte le ricchezze” ed “il sequestro dell'85% per cento dei profitti
di guerra”. Strada facendo, il socialisteggiante
bagaglio anti padronale e antimilitarista si rivelò ingombrante e fu gettato.
Ma il convoglio rimase saldamente agganciato alla locomotiva. Era carico di
giovani pronti a scendere per salire sui camion delle spedizioni punitive.
Mario Dellacqua
CARLO EMILIO GADDA
Giornale di guerra e di
prigionia con il “Diario di Caporetto”
Edizioni
San Paolo, 2014
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