Erano interventi
comparsi fra il 1966 e il 2003 su “La Stampa”, “Repubblica”
e “l'Unità”, ma anche “Il manifesto”, “Lotta continua”,
“La Gazzetta del Popolo”, “Il Quotidiano dei Lavoratori”,
“Brescia Oggi”. Questa antologia di interviste e di
conversazioni con Nuto Revelli che Mario Cordero ha curato per
Einaudi, è ricca di conferme e riserva qualche sorpresa con qualche
salutare inquietudine.
Né storico, né sociologo, né antropologo per fiera rivendicazione, “il testimone” arriva dove anni di ricerche del meglio tra gli specialisti ci hanno portato: la memoria è un'attrezzatura delicata e crudele che bisogna saper maneggiare con cura, se vuoi evitare che ripetizioni e ingigantimenti in complice andirivieni con rimozioni e rimpicciolimenti ti portino a spasso al servizio di tutto e del contrario di tutto. La memoria è un filtro che può depurare ma anche inquinare. Pertanto, va difesa dalle insidie – anche involontarie – che porta nel suo grembo. In questa severa cautela che combatte i monumenti e le demolizioni sommarie come i furbeschi “livellamenti di responsabilità” (pag.146), Nuto Revelli è maestro.
Un esempio. Gli stenti di tutta la prima metà del Novecento - guerra e lotta partigiana comprese - possono benissimo essere proiettati come uno spettacolo spaventoso di miserie per strappare ai giovani un po' di ubbidienza e di timore reverenziale, loro che hanno il telefonino, l'automobile, la discoteca mentre noi niente eccetera.
Ma, con altrettanta disinvoltura, gli stessi decenni possono essere somministrati come modelli esemplari e purtroppo smarriti di quella fraterna austerità di legami comunitari in cui stavamo meglio anche se stavamo peggio.
Nuto Revelli non sogna un ritorno alla società pastorale. Vede gli stereotipi come fumo negli occhi e smentisce il mito della miseria che cattura la nostalgia. I rapporti familiari erano segnati “da una durezza di vita tremenda” (pag. 194) che ti spingeva non a baciare, ma a mandare brutalmente da garzoni i figli che non riuscivi a sfamare. Eppure, quelli furono anche anni di speranza, se non di entusiasmo (pag. 196): quello è effimero e nasce dalla presunzione ingenua e laboriosa di avere finalmente a portata di mano un domani più giusto, più libero e lieto. E se, fin dai suoi primi passi, la Repubblica vide troppi fascisti tornare al loro posto, la speranza alimentò, “malgrado lo scoramento” (pag.146) la rabbiosa volontà di non mollare, di non dargliela vinta.
RESISTENZA O RENITENZA
Il rifiuto della retorica con “la piuma sul cappello e della gran bevuta” (pag. 38) e la refrattarietà per la mitologia imbalsamata nei cortei dispregiativamente chiamati “processioni” non risparmia neppure la Resistenza. Di quell'epopea, Revelli non tace i vitelli rubati e le violenze private. Non nasconde la pluralità rissosa delle formazioni politiche, ma affronta l'eterno conflitto fra le tentazioni egemoniche dei commissari e il primato “tecnico” assegnato dalle ispirazioni autonomistiche all'efficienza militare della banda. Non rimuove l'ignoranza e la diseducazione civile della sua generazione. “Noi, per diventare antifascisti, avevamo passato un solo esame: la ritirata di Russia” (pag. 215), perchè nel novembre 1938 non era bastato l'allontanamento da scuola di Riccardo Cavaglion in quanto ebreo e a casa si preferì “lasciar perdere” (pag. 228) e non “immischiarsi” (pag.226). Fu facile come spostare un file nel cestino, direbbe Margaret Mazzantini. La situazione era gravissima e “c'era gente che continuava a vivere nella più assoluta normalità. E anche oggi , quanta gente è distratta” (pag. 134).
Poichè “il pregiudizio appiattisce” (pag.220), il testimone della ritirata dalla Russia e della Resistenza in Piemonte sentì di dover passare la parola ai vinti nella guerra che al ritorno nella loro terra avevano subito una replica della stessa sconfitta, consumatasi in silenzio e senza rivolte con l'abbandono della campagna povera e delle borgate in montagna. “Più gli altri sono diversi, più interessano, purchè siano meritevoli e abbiano qualcosa da insegnare” (pag.149): Nuto Revelli scoprì così l'umanità emarginata e dignitosa delle “calabrotte” e delle “tarune” che lasciavano i fichi, le olive e l'asino per sposare per procura i viticoltori della Langa in lenta ascesa sociale. Quell'incrocio di dialetti tra “due Italie contadine” (pag.104) gli fece incontrare una patria autentica in cui credere e a cui dare una segreta armonia fatta di comune umiltà e di comune ansia di riscatto. Il risultato – ha scritto Cesare Roccati – è una “umana enciclopedia del mondo contadino” che grida vendetta per un secolo di errori e di tradimenti compiuti dalle classi dirigenti del cuneese e dello Stato in una società fondata “sullo sfruttamento dei più deboli, sulle emigrazioni forzate, sulla retorica del sacrificio, sul sangue di un numero interminabile di poveri cristi mandati a morire sui campi di battaglia” (p.73). Ma “le sacche di miseria del cuneese e del Meridione hanno la stessa storia” (pag. 34). e “se viene a mancare la presenza dell'uomo, montagna e collina, presto o tardi, ci franeranno sulla testa”. Profeticamente, Nuto Revelli dichiarava a Lorenzo Mondo nel 1979 che questo “discorso molto pratico interessa i due terzi d'Italia” (pag.99). Nel 1974 temeva che le sue vallate diventassero “terra di conquista per le immobiliari, serbatoi di aria pulita, sanatori della società industriale” o, nella peggiore delle ipotesi, “terra bruciata, di nessuno” (pag.74).
Revelli non guardava ai contadini con l'immedesimazione romantica che portava Renzo Del Carria a esaltare i suoi “Proletari senza rivoluzione”: sempre più avanti e sempre traditi dai loro capi. La solidarietà che lo legava ai contadini poveri di tutta Italia, non impediva al testimone inquieto di sferzare la complicità attiva o passiva di gran parte della gente del cuneese con l'ordine sociale che la stritolava, la sua inclinazione a subire, la sua scelta “di non coinvolgersi”, di preferire “la renitenza, non la Resistenza” (pag.183).
I COMPAGNI CHE SBAGLIAVANO
Amarezza e rabbia affiorano quando Nuto Revelli parla del terrorismo. E qui arriva la sorpresa. Non sapevo che l'espressione “compagni che sbagliano” gli appartenesse. Revelli la pronunciò nel 1972 a Montoso per spiegare la morte di Giangiacomo Feltrinelli ad un raduno di partigiani. La ripropose nel settembre 1977 in un'intervista al “Quotidiano dei Lavoratori”. Condannò nella lotta armata “le scorciatoie” di una “ribellione isterica e velleitaria”, ma fece risalire la sua diffusione al dramma dell'emigrazione dal sud, alla violenza del sottogoverno che, “eretto a sistema”, ruba “a man salva sulla pelle di chi lavora e produce”. E' “la violenza del sistema” a indurre “risposte sbagliate e scelte disperate” (pag. 85-86).
Non ricordo se Revelli fu iscritto d'ufficio dai dirigenti comunisti dell'epoca nel piccolo esercito dei “cattivi maestri” indicati come fornitori di coperture intellettuali alle aree di contiguità con il terrorismo. L'accusa mi/ci fece molto soffrire. Noi eravamo i primi avversari della lotta armata, ma effettivamente avevamo il torto di pensare che l'unico modo per prosciugare la palude di sofferenze sociali nelle quali le suggestioni insurrezionali prosperavano, era quello non di criminalizzare, ma di mantenere aperto un dialogo con le aree giovanili più esposte alle tentazioni della violenza che vedevamo serpeggiare nelle nostre file. I comunisti furono irremovibili. Ci derisero, ci isolarono, ci bollarono a fuoco come fiancheggiatori e complici dei nemici della democrazia.
Storie vecchie, ma oggi le argomentazioni di Nuto Revelli mi sembrano obsolete. La violenza del sistema non si è attenuata, beninteso. Si è anzi raffinata, estesa e incrudelita, ma non può essere convocata a soccorso di altra violenza con la pretesa che essa diventi giusta, esemplare, sistematicamente giustificata dal contesto o addirittura attribuita alla provocazione quando non si può negare l'evidenza di una deriva militarista.
Le malefatte dei poteri pubblici e privati vanno sempre denunciate, ma la sinistra sindacale e politica non è più efficace se spera di usarle come medicina per curare la malattia dei suoi comportamenti o per nascondere l'opaca persuasività dei suoi programmi.
Con John Holloway, mi vado convincendo che “centrale non è lo scontro con l’altra parte, ma la costruzione del nostro mondo”. Dunque, “cerchiamo di concentrarci sul nostro fare”. Anche per questa ragione trovo evasiva e reticente Annamaria Furlan quando su “La Stampa” del 4 gennaio condanna l'assenteismo dei vigili romani, ma ne attribuisce la responsabilità al governo che non rinnova i contratti da sei anni, ai dirigenti della pubblica amministrazione “che hanno il dovere di controllare” e, naturalmente, ai politici corrotti per 70 miliardi di danni al Paese. Tutto vero, erede di Bonanni che non è altro. Ma anche i bambini sanno che il movimento sindacale non può essere presentato come una candida colombella passata senza macchia nella bufera del degrado che ci ammorba.
Né storico, né sociologo, né antropologo per fiera rivendicazione, “il testimone” arriva dove anni di ricerche del meglio tra gli specialisti ci hanno portato: la memoria è un'attrezzatura delicata e crudele che bisogna saper maneggiare con cura, se vuoi evitare che ripetizioni e ingigantimenti in complice andirivieni con rimozioni e rimpicciolimenti ti portino a spasso al servizio di tutto e del contrario di tutto. La memoria è un filtro che può depurare ma anche inquinare. Pertanto, va difesa dalle insidie – anche involontarie – che porta nel suo grembo. In questa severa cautela che combatte i monumenti e le demolizioni sommarie come i furbeschi “livellamenti di responsabilità” (pag.146), Nuto Revelli è maestro.
Un esempio. Gli stenti di tutta la prima metà del Novecento - guerra e lotta partigiana comprese - possono benissimo essere proiettati come uno spettacolo spaventoso di miserie per strappare ai giovani un po' di ubbidienza e di timore reverenziale, loro che hanno il telefonino, l'automobile, la discoteca mentre noi niente eccetera.
Ma, con altrettanta disinvoltura, gli stessi decenni possono essere somministrati come modelli esemplari e purtroppo smarriti di quella fraterna austerità di legami comunitari in cui stavamo meglio anche se stavamo peggio.
Nuto Revelli non sogna un ritorno alla società pastorale. Vede gli stereotipi come fumo negli occhi e smentisce il mito della miseria che cattura la nostalgia. I rapporti familiari erano segnati “da una durezza di vita tremenda” (pag. 194) che ti spingeva non a baciare, ma a mandare brutalmente da garzoni i figli che non riuscivi a sfamare. Eppure, quelli furono anche anni di speranza, se non di entusiasmo (pag. 196): quello è effimero e nasce dalla presunzione ingenua e laboriosa di avere finalmente a portata di mano un domani più giusto, più libero e lieto. E se, fin dai suoi primi passi, la Repubblica vide troppi fascisti tornare al loro posto, la speranza alimentò, “malgrado lo scoramento” (pag.146) la rabbiosa volontà di non mollare, di non dargliela vinta.
RESISTENZA O RENITENZA
Il rifiuto della retorica con “la piuma sul cappello e della gran bevuta” (pag. 38) e la refrattarietà per la mitologia imbalsamata nei cortei dispregiativamente chiamati “processioni” non risparmia neppure la Resistenza. Di quell'epopea, Revelli non tace i vitelli rubati e le violenze private. Non nasconde la pluralità rissosa delle formazioni politiche, ma affronta l'eterno conflitto fra le tentazioni egemoniche dei commissari e il primato “tecnico” assegnato dalle ispirazioni autonomistiche all'efficienza militare della banda. Non rimuove l'ignoranza e la diseducazione civile della sua generazione. “Noi, per diventare antifascisti, avevamo passato un solo esame: la ritirata di Russia” (pag. 215), perchè nel novembre 1938 non era bastato l'allontanamento da scuola di Riccardo Cavaglion in quanto ebreo e a casa si preferì “lasciar perdere” (pag. 228) e non “immischiarsi” (pag.226). Fu facile come spostare un file nel cestino, direbbe Margaret Mazzantini. La situazione era gravissima e “c'era gente che continuava a vivere nella più assoluta normalità. E anche oggi , quanta gente è distratta” (pag. 134).
Poichè “il pregiudizio appiattisce” (pag.220), il testimone della ritirata dalla Russia e della Resistenza in Piemonte sentì di dover passare la parola ai vinti nella guerra che al ritorno nella loro terra avevano subito una replica della stessa sconfitta, consumatasi in silenzio e senza rivolte con l'abbandono della campagna povera e delle borgate in montagna. “Più gli altri sono diversi, più interessano, purchè siano meritevoli e abbiano qualcosa da insegnare” (pag.149): Nuto Revelli scoprì così l'umanità emarginata e dignitosa delle “calabrotte” e delle “tarune” che lasciavano i fichi, le olive e l'asino per sposare per procura i viticoltori della Langa in lenta ascesa sociale. Quell'incrocio di dialetti tra “due Italie contadine” (pag.104) gli fece incontrare una patria autentica in cui credere e a cui dare una segreta armonia fatta di comune umiltà e di comune ansia di riscatto. Il risultato – ha scritto Cesare Roccati – è una “umana enciclopedia del mondo contadino” che grida vendetta per un secolo di errori e di tradimenti compiuti dalle classi dirigenti del cuneese e dello Stato in una società fondata “sullo sfruttamento dei più deboli, sulle emigrazioni forzate, sulla retorica del sacrificio, sul sangue di un numero interminabile di poveri cristi mandati a morire sui campi di battaglia” (p.73). Ma “le sacche di miseria del cuneese e del Meridione hanno la stessa storia” (pag. 34). e “se viene a mancare la presenza dell'uomo, montagna e collina, presto o tardi, ci franeranno sulla testa”. Profeticamente, Nuto Revelli dichiarava a Lorenzo Mondo nel 1979 che questo “discorso molto pratico interessa i due terzi d'Italia” (pag.99). Nel 1974 temeva che le sue vallate diventassero “terra di conquista per le immobiliari, serbatoi di aria pulita, sanatori della società industriale” o, nella peggiore delle ipotesi, “terra bruciata, di nessuno” (pag.74).
Revelli non guardava ai contadini con l'immedesimazione romantica che portava Renzo Del Carria a esaltare i suoi “Proletari senza rivoluzione”: sempre più avanti e sempre traditi dai loro capi. La solidarietà che lo legava ai contadini poveri di tutta Italia, non impediva al testimone inquieto di sferzare la complicità attiva o passiva di gran parte della gente del cuneese con l'ordine sociale che la stritolava, la sua inclinazione a subire, la sua scelta “di non coinvolgersi”, di preferire “la renitenza, non la Resistenza” (pag.183).
I COMPAGNI CHE SBAGLIAVANO
Amarezza e rabbia affiorano quando Nuto Revelli parla del terrorismo. E qui arriva la sorpresa. Non sapevo che l'espressione “compagni che sbagliano” gli appartenesse. Revelli la pronunciò nel 1972 a Montoso per spiegare la morte di Giangiacomo Feltrinelli ad un raduno di partigiani. La ripropose nel settembre 1977 in un'intervista al “Quotidiano dei Lavoratori”. Condannò nella lotta armata “le scorciatoie” di una “ribellione isterica e velleitaria”, ma fece risalire la sua diffusione al dramma dell'emigrazione dal sud, alla violenza del sottogoverno che, “eretto a sistema”, ruba “a man salva sulla pelle di chi lavora e produce”. E' “la violenza del sistema” a indurre “risposte sbagliate e scelte disperate” (pag. 85-86).
Non ricordo se Revelli fu iscritto d'ufficio dai dirigenti comunisti dell'epoca nel piccolo esercito dei “cattivi maestri” indicati come fornitori di coperture intellettuali alle aree di contiguità con il terrorismo. L'accusa mi/ci fece molto soffrire. Noi eravamo i primi avversari della lotta armata, ma effettivamente avevamo il torto di pensare che l'unico modo per prosciugare la palude di sofferenze sociali nelle quali le suggestioni insurrezionali prosperavano, era quello non di criminalizzare, ma di mantenere aperto un dialogo con le aree giovanili più esposte alle tentazioni della violenza che vedevamo serpeggiare nelle nostre file. I comunisti furono irremovibili. Ci derisero, ci isolarono, ci bollarono a fuoco come fiancheggiatori e complici dei nemici della democrazia.
Storie vecchie, ma oggi le argomentazioni di Nuto Revelli mi sembrano obsolete. La violenza del sistema non si è attenuata, beninteso. Si è anzi raffinata, estesa e incrudelita, ma non può essere convocata a soccorso di altra violenza con la pretesa che essa diventi giusta, esemplare, sistematicamente giustificata dal contesto o addirittura attribuita alla provocazione quando non si può negare l'evidenza di una deriva militarista.
Le malefatte dei poteri pubblici e privati vanno sempre denunciate, ma la sinistra sindacale e politica non è più efficace se spera di usarle come medicina per curare la malattia dei suoi comportamenti o per nascondere l'opaca persuasività dei suoi programmi.
Con John Holloway, mi vado convincendo che “centrale non è lo scontro con l’altra parte, ma la costruzione del nostro mondo”. Dunque, “cerchiamo di concentrarci sul nostro fare”. Anche per questa ragione trovo evasiva e reticente Annamaria Furlan quando su “La Stampa” del 4 gennaio condanna l'assenteismo dei vigili romani, ma ne attribuisce la responsabilità al governo che non rinnova i contratti da sei anni, ai dirigenti della pubblica amministrazione “che hanno il dovere di controllare” e, naturalmente, ai politici corrotti per 70 miliardi di danni al Paese. Tutto vero, erede di Bonanni che non è altro. Ma anche i bambini sanno che il movimento sindacale non può essere presentato come una candida colombella passata senza macchia nella bufera del degrado che ci ammorba.
Mario Dellacqua
NUTO
REVELLI, Il testimone. Conversazioni e interviste
1966-2003
Einaudi 2014, pag.
241, euro 12
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