Non so più quando e
dove ho sentito o letto che il futuro è nel ritrovamento delle
nostre origini. Sulle tracce del perduto “spirito del
sindacalismo”, cercato con l'ansia di chi vede in pericolo
mortale una creatura collettiva alla quale sente di appartenere e di
dovere riconoscenza, l'ex sindacalista della Cisl milanese Sandro
Antoniazzi incontra un principio. E' limpido come una sorgente, ma è
stato abbandonato strada facendo dalla frenesia un po' superba di chi
ha fretta di correre e di raggiungere e non ha la pazienza di
aspettare. Nato con la Prima Internazionale del 1864, quel principio
stabilisce che “l'emancipazione dei lavoratori sarà opera
dei lavoratori medesimi”. E anzi aggiungendo: “O non
sarà”, inaugurava una formula perentoria che avrebbe avuto
solenni imitazioni successive. (Gonella diceva: ”Il sindacato
sarà cristiano o non sarà” e Pastore ribatteva: “Il
sindacato sarà dei lavoratori o non sarà”).
Ma il destino
inesorabile di tutti i grandi principi è quello di trascolorare
dalle suggestioni dei tempi ruggenti ai ruzzoloni nelle correnti
aspre della maturità, dove l'adamantino delle origini si mescola
fatalmente con le ambiguità del grigio che ti sembra sporco, del
tiepido che ti sembra indifferente e del nuovo che ti sembra ingrato
per non dire traditore. Quello spirito nasce santo e cristallino:
tale lo coltivi nell'immaginazione del tuo forum interiore, ma
sai che dopo i primi passi è già spurio, inquieto, infedele.
Nella sofferta
visione di Antoniazzi, la forza propulsiva di quel principio è stata
azzoppata dalla deriva politica che, attraverso il partito,
sostituiva la pratica quotidiana della solidarietà coltivata
nell'attenzione alle condizioni lavorative da migliorare con
l'obiettivo della conquista dei poteri pubblici. Con la narrazione
comunista, la traiettoria da percorrere prevedeva la rivoluzione e il
transito nella dittatura proletaria. La più accettabile e moderata
versione gradualista delle socialdemocrazie prevedeva una lunga
marcia di riforme sociali sul terreno della legalità democratica.
Specialmente l'illusione comunista è stata la causa di tante
tragedie e la responsabile di un “enorme spreco di energie”
(pag.28). Quando il sindacato diventa cinghia di trasmissione e
strumento di agitazione sociale al servizio di una strategia
elaborata dal partito per la conquista del potere, il protagonismo
dei lavoratori viene esautorato (o tutelato) ed essi vengono educati
“a guardare ai risultati
elettorali e ai grandi temi di riforma del paese” più
che all'esperienza della prestazione lavorativa migliorabile
attraverso la contrattazione (pag.29).
Poichè la libertà
e l'autonomia del lavoratore sono la stella polare per lo spirito del
sindacalismo da ritrovare, Antoniazzi conviene con Vittorio Foa e
Pino Ferraris che, nella “Gerusalemme liberata”,
denunciavano l'avvenuto capovolgimento della Prima Internazionale di
Marx nella Terza di Lenin: la libertà e l'autonomia vengono
soppiantate dal ruolo dominante, centralistico e autoritario del
partito bolscevico che, con le sue 21 famose condizioni, vincola i
comunismi di tutto il mondo all'obbedienza verso la neonata
repubblica dei soviet. Che “la libertà viene prima”
l'aveva affermato anche Bruno Trentin e l'ultimo Sergio Garavini era
approdato a una molto ravvicinata sintonia con la critica di ogni
socialismo imposto dall'alto mediante la pratica coercitiva e/o
pedagogica del partito-Stato.
E' la ribellione a
questo rovesciamento di principi a guidare Sandro Antoniazzi verso la
predilezione per Simone Weil, per il mutualismo cooperativo e
federativo di Proudhon, per l'anarchismo di Kropotkin (dopo il
soddisfacimento dei bisogni essenziali attraverso la produzione,
meglio darsi alla lettura) e per la “solidarietà ovunque”
del socialismo “fraternario”. In armonia con Simone Weil,
Antoniazzi vuole che sia etica l'origine del sindacato, la cui
funzione non è solo quella di promuovere la tutela del lavoratore
dalla disumanità dello sfruttamento. Il trasferimento della
proprietà dei mezzi di produzione nelle mani della “provvisoria”
dittatura del partito, trasforma in massa di manovra i lavoratori, la
cui emancipazione deve essere culturale ed umana prima che economica
attraverso la conquista di gradi sempre più avanzati di istruzione e
di consapevolezza morale e civile.
Perchè i lavoratori
sono destinati a subire l'eterna condizione di orfani se non guidati
da un'intelligenza esterna alla quale da soli non possono attingere a
causa della loro invalicabile dipendenza da visioni economicistiche e
settoriali, effimere perchè riassorbibili dal “sistema”?
E' valida la domanda rivolta alle scuole di quel “leninismo
straccione” convinto
che, come dice Gianni Marchetto, “le
teste delle persone siano delle vasche vuote in attesa di essere
riempite dal sapere”
degli “eletti”
abilitati con il loro certificato di sana e robusta costituzione
proletaria a “educarti
il pupo”?. Se
sì,
altrettanto
legittima è la domanda posta dall'altro fronte: perché
i lavoratori possono esprimere appieno la loro autonomia
principalmente attraverso la forma-sindacato, mentre la stessa
liberatoria intraprendenza dovrebbe essere loro preclusa o destinata
al fallimento e al tradimento se, con altre rappresentanze sociali,
partecipano nel partito alla scelta di programmi politici di riforma?
Antoniazzi non
risponde perchè non si pone le domande. Quello che per gli uni è
gelosa coltivazione dell'autonomia, per gli altri è chiusura
corporativa o, nella migliore delle ipotesi, fuga in avanti
pansindacalistica. E quello che per gli altri è applicazione di una
coerente strategia di ascesa dell'egemonia delle classi subalterne
dalla fabbrica ai poteri pubblici, per gli uni è riduzione dei
lavoratori a massa di manovra, è strumentalizzazione a fini politici
delle loro aspirazioni alla giustizia, mentre i loro interessi
possono essere unitariamente difesi con efficacia solo oltre le
frontiere dell'ideologia. Cugini un po' litigiosi fin da piccoli e
anche da grandi, i sindacalisti italiani.
Anche nella
Resistenza si produsse una frattura analoga. Chi con i commissari
politici voleva educare i partigiani a guidare, nella Repubblica, la
rinata vita democratica, trovava sempre a osteggiarlo chi avversava
ogni intromissione politica e consigliava di rinviare ogni contrasto
a “dopo”. Per il momento, meglio curare tutti
esclusivamente l'efficienza militare della banda.
Insomma, come quello
della Resistenza, lo spirito del sindacalismo non è uno e santo e la
via della ricomposizione unitaria appare impervia. C'è però un
vantaggio nella difficoltà, se lo si vuol vedere. Nell'epoca in cui
il megacapitalismo globalizza la produzione, mentre il lavoro con i
suoi bisogni si ostina a rimanere locale, la prima cosa da non fare è
abbracciare le tesi dell'avversario come fece Tony Blair (p. 71). Ma,
soprattutto, non serve difendere il proprio orticello, perchè
“l'orticello non c'è più” (pag.89). Non solo i motivi
di divisione tra Cgil, Cisl e Uil “sembrano ben poca cosa”
in Italia. Da noi, più che un'unificazione forzata di sigle, va
aiutata una “costante e pervicace ricerca dell'accordo fra le
tre confederazioni sindacali”. Ma l'azione del movimento
sindacale deve sprovincializzarsi e proiettarsi in Europa e nel mondo
guadagnando un'efficacia internazionale dei suoi interventi, sia
coordinando i negoziati con i lavoratori delle multinazionali, sia
promuovendo incisive misure legislative di sicurezza a livelli
sovranazionali.
Soprattutto, secondo
Antoniazzi, occorre restituire il sindacato al protagonismo dei
lavoratori. E' vero che la sua rappresentatività è in crisi come
quella della Confindustria, dei partiti e della Chiesa cattolica. E'
vero che la difficoltà di difendere posti e salari indebolisce la
sua autorità davanti alle imprese e il suo prestigio davanti ai
lavoratori. E' vero che l'eclissi della grande fabbrica brucia il
terreno su cui possono sorgere legami solidali e associativi. Il suo
funzionamento ademocratico apre le porte di Palazzo Chigi, ma lascia
chiusi i canali di comunicazione con i lavoratori precari, con le
donne, con i lavoratori deboli e poveri.
In questa stagione
gelida in cui, come dice Alain Touraine, “l'operaio tipico è un
uomo senza scopo”, bisogna passare dal militante eroico che con
spirito missionario e generosità eccezionale sfidava l'arroganza
delle controparti, al lavoratore competente produttore di lavoro
utile e solidale per l'esercito sbandato di abbandonati
dall'abdicazione rovinosa del welfare.
Qui la meritevole
fatica di Antoniazzi appare avara di indicazioni e io non so colmare
le sue incertezze perchè confesso di condividerle. Per evitare che
“i Congressi si riducano ad un rito” (pag.33) celebrativo
del conteggio delle fedeltà e per favorire invece la loro
trasformazione in palestra libera e aperta alla gara delle idee,
occorrerebbe il trauma creativo di un'autoriforma come quella
introdotta da Giulio Pastore nel 1958 torinese: ma se ne sono
smarrite la grinta, le tracce e la memoria.
Si potrebbe
cominciare vincolando la nomina dei funzionari a pieno tempo al voto
degli iscritti dal basso sul territorio e nei luoghi di lavoro. Basta
con il collaudato metodo della cooptazione dall'alto. Vuoi
scommettere che chi insegna a esprimere le critiche “nelle sedi
appropriate, cioè negli organismi direttivi” e sconsiglia la
libera circolazione dei documenti, è già pronto ad evocare il
fantasma della degenerazione correntizia e clientelare?
Mario Dellacqua
P.S.
Mi spiace dover segnalare un grave torto che Antoniazzi fa a Rosa
Luxemburg a pag.24, pur avendone apprezzato l'opera e la “rivoluzione
dal basso” a pag. 39 e a pag.
62. Non è vero che nel 1914 “nessuno si sentì di
disertare il richiamo alle armi del proprio paese”:
è noto che la Lega spartachista della Luxemburg votò contro i
crediti di guerra. Poi tutti, anche la Chiesa di Benedetto XV che
aveva parlato di “inutile strage”,
furono fagocitati nel clima dell'unione sacrée.
SANDRO ANTONIAZZI,
Lo spirito del sindacalismo,
Cittadella Editrice, Assisi
novembre 2013.
Collana diretta da Giannino Piana e Paolo Allegra,
pag. 109
Domenica alle 17 al circolo arci di via bignone 89 a Pinerolo si è
RispondiEliminasvolta un'assemblea aperta di 15 lavoratori immigrati organizzati dal
SiCobas, e di lavoratori e pensionati di alp e PRC.
Il sindacalista SiCobas De Torraca ha raccontato la lotta recente
dell'appalto pulizie della cooperativa C&P Group alla Raspini di Piscina, conclusasi con una vittoria e poi ha
parlato della lunga lotta dei mercati generali - CAT- di Torino.
Si è rilevato che le lotte che pagano in questo periodo sono per lo più
nel settore della logistica e/o dove ci sono immigrati, che a differenza
di molti lavoratori italiani hanno una grande solidarietà interna e
capacità di lottare. E' seguito il dibattito e uno spuntino. Lanza per
l'alpcub ha ringraziato per gli insegnamenti di queste lotte e
confermato la volontà di collegarsi da parte di alp.
registrazione assemblea
RispondiEliminahttp://www.alpcub.com/ass_15feb2015_cooperative.mp3
Due osservazioni e una riflessione rispetto alla riunione di ieri sulle lotte del Si.Cobas
www.alpcub.com/due_osservazioni.pdf