mercoledì 11 febbraio 2015

QUELLO SPIRITO NON E' SANTO E L'ORTICELLO NON C'E' PIU'

Non so più quando e dove ho sentito o letto che il futuro è nel ritrovamento delle nostre origini. Sulle tracce del perduto “spirito del sindacalismo”, cercato con l'ansia di chi vede in pericolo mortale una creatura collettiva alla quale sente di appartenere e di dovere riconoscenza, l'ex sindacalista della Cisl milanese Sandro Antoniazzi incontra un principio. E' limpido come una sorgente, ma è stato abbandonato strada facendo dalla frenesia un po' superba di chi ha fretta di correre e di raggiungere e non ha la pazienza di aspettare. Nato con la Prima Internazionale del 1864, quel principio stabilisce che “l'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori medesimi”. E anzi aggiungendo: “O non sarà”, inaugurava una formula perentoria che avrebbe avuto solenni imitazioni successive. (Gonella diceva: ”Il sindacato sarà cristiano o non sarà” e Pastore ribatteva: “Il sindacato sarà dei lavoratori o non sarà”).

Ma il destino inesorabile di tutti i grandi principi è quello di trascolorare dalle suggestioni dei tempi ruggenti ai ruzzoloni nelle correnti aspre della maturità, dove l'adamantino delle origini si mescola fatalmente con le ambiguità del grigio che ti sembra sporco, del tiepido che ti sembra indifferente e del nuovo che ti sembra ingrato per non dire traditore. Quello spirito nasce santo e cristallino: tale lo coltivi nell'immaginazione del tuo forum interiore, ma sai che dopo i primi passi è già spurio, inquieto, infedele.
Nella sofferta visione di Antoniazzi, la forza propulsiva di quel principio è stata azzoppata dalla deriva politica che, attraverso il partito, sostituiva la pratica quotidiana della solidarietà coltivata nell'attenzione alle condizioni lavorative da migliorare con l'obiettivo della conquista dei poteri pubblici. Con la narrazione comunista, la traiettoria da percorrere prevedeva la rivoluzione e il transito nella dittatura proletaria. La più accettabile e moderata versione gradualista delle socialdemocrazie prevedeva una lunga marcia di riforme sociali sul terreno della legalità democratica. Specialmente l'illusione comunista è stata la causa di tante tragedie e la responsabile di un “enorme spreco di energie” (pag.28). Quando il sindacato diventa cinghia di trasmissione e strumento di agitazione sociale al servizio di una strategia elaborata dal partito per la conquista del potere, il protagonismo dei lavoratori viene esautorato (o tutelato) ed essi vengono educati “a guardare ai risultati elettorali e ai grandi temi di riforma del paese” più che all'esperienza della prestazione lavorativa migliorabile attraverso la contrattazione (pag.29).
Poichè la libertà e l'autonomia del lavoratore sono la stella polare per lo spirito del sindacalismo da ritrovare, Antoniazzi conviene con Vittorio Foa e Pino Ferraris che, nella “Gerusalemme liberata”, denunciavano l'avvenuto capovolgimento della Prima Internazionale di Marx nella Terza di Lenin: la libertà e l'autonomia vengono soppiantate dal ruolo dominante, centralistico e autoritario del partito bolscevico che, con le sue 21 famose condizioni, vincola i comunismi di tutto il mondo all'obbedienza verso la neonata repubblica dei soviet. Che “la libertà viene prima” l'aveva affermato anche Bruno Trentin e l'ultimo Sergio Garavini era approdato a una molto ravvicinata sintonia con la critica di ogni socialismo imposto dall'alto mediante la pratica coercitiva e/o pedagogica del partito-Stato.
E' la ribellione a questo rovesciamento di principi a guidare Sandro Antoniazzi verso la predilezione per Simone Weil, per il mutualismo cooperativo e federativo di Proudhon, per l'anarchismo di Kropotkin (dopo il soddisfacimento dei bisogni essenziali attraverso la produzione, meglio darsi alla lettura) e per la “solidarietà ovunque” del socialismo “fraternario”. In armonia con Simone Weil, Antoniazzi vuole che sia etica l'origine del sindacato, la cui funzione non è solo quella di promuovere la tutela del lavoratore dalla disumanità dello sfruttamento. Il trasferimento della proprietà dei mezzi di produzione nelle mani della “provvisoria” dittatura del partito, trasforma in massa di manovra i lavoratori, la cui emancipazione deve essere culturale ed umana prima che economica attraverso la conquista di gradi sempre più avanzati di istruzione e di consapevolezza morale e civile.
Perchè i lavoratori sono destinati a subire l'eterna condizione di orfani se non guidati da un'intelligenza esterna alla quale da soli non possono attingere a causa della loro invalicabile dipendenza da visioni economicistiche e settoriali, effimere perchè riassorbibili dal “sistema”? E' valida la domanda rivolta alle scuole di quel “leninismo straccione” convinto che, come dice Gianni Marchetto, “le teste delle persone siano delle vasche vuote in attesa di essere riempite dal sapere” degli “eletti” abilitati con il loro certificato di sana e robusta costituzione proletaria a “educarti il pupo”?. Se sì, altrettanto legittima è la domanda posta dall'altro fronte: perché i lavoratori possono esprimere appieno la loro autonomia principalmente attraverso la forma-sindacato, mentre la stessa liberatoria intraprendenza dovrebbe essere loro preclusa o destinata al fallimento e al tradimento se, con altre rappresentanze sociali, partecipano nel partito alla scelta di programmi politici di riforma?
Antoniazzi non risponde perchè non si pone le domande. Quello che per gli uni è gelosa coltivazione dell'autonomia, per gli altri è chiusura corporativa o, nella migliore delle ipotesi, fuga in avanti pansindacalistica. E quello che per gli altri è applicazione di una coerente strategia di ascesa dell'egemonia delle classi subalterne dalla fabbrica ai poteri pubblici, per gli uni è riduzione dei lavoratori a massa di manovra, è strumentalizzazione a fini politici delle loro aspirazioni alla giustizia, mentre i loro interessi possono essere unitariamente difesi con efficacia solo oltre le frontiere dell'ideologia. Cugini un po' litigiosi fin da piccoli e anche da grandi, i sindacalisti italiani.
Anche nella Resistenza si produsse una frattura analoga. Chi con i commissari politici voleva educare i partigiani a guidare, nella Repubblica, la rinata vita democratica, trovava sempre a osteggiarlo chi avversava ogni intromissione politica e consigliava di rinviare ogni contrasto a “dopo”. Per il momento, meglio curare tutti esclusivamente l'efficienza militare della banda.
Insomma, come quello della Resistenza, lo spirito del sindacalismo non è uno e santo e la via della ricomposizione unitaria appare impervia. C'è però un vantaggio nella difficoltà, se lo si vuol vedere. Nell'epoca in cui il megacapitalismo globalizza la produzione, mentre il lavoro con i suoi bisogni si ostina a rimanere locale, la prima cosa da non fare è abbracciare le tesi dell'avversario come fece Tony Blair (p. 71). Ma, soprattutto, non serve difendere il proprio orticello, perchè “l'orticello non c'è più” (pag.89). Non solo i motivi di divisione tra Cgil, Cisl e Uil “sembrano ben poca cosa” in Italia. Da noi, più che un'unificazione forzata di sigle, va aiutata una “costante e pervicace ricerca dell'accordo fra le tre confederazioni sindacali”. Ma l'azione del movimento sindacale deve sprovincializzarsi e proiettarsi in Europa e nel mondo guadagnando un'efficacia internazionale dei suoi interventi, sia coordinando i negoziati con i lavoratori delle multinazionali, sia promuovendo incisive misure legislative di sicurezza a livelli sovranazionali.
Soprattutto, secondo Antoniazzi, occorre restituire il sindacato al protagonismo dei lavoratori. E' vero che la sua rappresentatività è in crisi come quella della Confindustria, dei partiti e della Chiesa cattolica. E' vero che la difficoltà di difendere posti e salari indebolisce la sua autorità davanti alle imprese e il suo prestigio davanti ai lavoratori. E' vero che l'eclissi della grande fabbrica brucia il terreno su cui possono sorgere legami solidali e associativi. Il suo funzionamento ademocratico apre le porte di Palazzo Chigi, ma lascia chiusi i canali di comunicazione con i lavoratori precari, con le donne, con i lavoratori deboli e poveri.
In questa stagione gelida in cui, come dice Alain Touraine, “l'operaio tipico è un uomo senza scopo”, bisogna passare dal militante eroico che con spirito missionario e generosità eccezionale sfidava l'arroganza delle controparti, al lavoratore competente produttore di lavoro utile e solidale per l'esercito sbandato di abbandonati dall'abdicazione rovinosa del welfare.
Qui la meritevole fatica di Antoniazzi appare avara di indicazioni e io non so colmare le sue incertezze perchè confesso di condividerle. Per evitare che “i Congressi si riducano ad un rito” (pag.33) celebrativo del conteggio delle fedeltà e per favorire invece la loro trasformazione in palestra libera e aperta alla gara delle idee, occorrerebbe il trauma creativo di un'autoriforma come quella introdotta da Giulio Pastore nel 1958 torinese: ma se ne sono smarrite la grinta, le tracce e la memoria.
Si potrebbe cominciare vincolando la nomina dei funzionari a pieno tempo al voto degli iscritti dal basso sul territorio e nei luoghi di lavoro. Basta con il collaudato metodo della cooptazione dall'alto. Vuoi scommettere che chi insegna a esprimere le critiche “nelle sedi appropriate, cioè negli organismi direttivi” e sconsiglia la libera circolazione dei documenti, è già pronto ad evocare il fantasma della degenerazione correntizia e clientelare?

Mario Dellacqua

P.S. Mi spiace dover segnalare un grave torto che Antoniazzi fa a Rosa Luxemburg a pag.24, pur avendone apprezzato l'opera e la “rivoluzione dal basso” a pag. 39 e a pag. 62. Non è vero che nel 1914 “nessuno si sentì di disertare il richiamo alle armi del proprio paese”: è noto che la Lega spartachista della Luxemburg votò contro i crediti di guerra. Poi tutti, anche la Chiesa di Benedetto XV che aveva parlato di “inutile strage”, furono fagocitati nel clima dell'unione sacrée.

SANDRO ANTONIAZZI, Lo spirito del sindacalismo
Cittadella Editrice, Assisi novembre 2013. 
Collana diretta da Giannino Piana e Paolo Allegra, pag. 109

2 commenti:

  1. Domenica alle 17 al circolo arci di via bignone 89 a Pinerolo si è
    svolta un'assemblea aperta di 15 lavoratori immigrati organizzati dal
    SiCobas, e di lavoratori e pensionati di alp e PRC.
    Il sindacalista SiCobas De Torraca ha raccontato la lotta recente
    dell'appalto pulizie della cooperativa C&P Group alla Raspini di Piscina, conclusasi con una vittoria e poi ha
    parlato della lunga lotta dei mercati generali - CAT- di Torino.
    Si è rilevato che le lotte che pagano in questo periodo sono per lo più
    nel settore della logistica e/o dove ci sono immigrati, che a differenza
    di molti lavoratori italiani hanno una grande solidarietà interna e
    capacità di lottare. E' seguito il dibattito e uno spuntino. Lanza per
    l'alpcub ha ringraziato per gli insegnamenti di queste lotte e
    confermato la volontà di collegarsi da parte di alp.

    RispondiElimina
  2. registrazione assemblea
    http://www.alpcub.com/ass_15feb2015_cooperative.mp3


    Due osservazioni e una riflessione rispetto alla riunione di ieri sulle lotte del Si.Cobas
    www.alpcub.com/due_osservazioni.pdf

    RispondiElimina