lunedì 23 gennaio 2017

ERMANNO REA, VEDI NAPOLI E POI VIVI

Su per giù dodicenne, è la sorella più grande di sicuro. Il suo grembiule smanicato a righe è indossato su una maglietta bianca, pronta a reggere un seno che non c'è ancora. Invece, il suo gomito contiene una creatura avvolta in un completino bianco: un biberon spunta tra due occhi stupiti e smarriti. Il suo portamento è già misurato da uno sguardo carico di precoce responsabilità e da una contrazione vagamente materna sulle labbra. Con la sinistra tiene per mano l'altro fratellino, un ricciolino con una canottiera invernale unta e bucata sotto l'ascella, occhi allenati a lacrime reduci da un millenario rimprovero.
La sorella più grande ha tutta l'aria di provenire dalla stessa stanza dove l'acqua scorre per la latrina e per l'acciottolio dei piatti. Però un non so che di imperioso accende il suo sguardo. I capelli neri a caschetto e la frangia ben curata tradiscono una dignità desiderata, ma non ancora gridata: un'ambizione umile, forse nutrita da suggestioni televisive miste ad acerbe frequentazioni adolescenziali. Il trio randagio ha tutta l'aria di non fidarsi della luce che, in un corridoio buio di pareti sconce e pavimento sgretolato, sembra guidarli verso il vicolo o il cortile. L'obiettivo di Mimmo Judice coglie la mezza famiglia dove tutti i giorni è libera e non sa dove andare.
In questa istantanea che l'editore Feltrinelli ha scelto per la copertina, c'è già tutto il dolore, la poesia e la resistenza dell'ultimo romanzo che, poco prima di lasciarci a settembre dello scorso anno, Ermanno Rea ha dedicato alla sua Napoli, la città che non ha mai abbandonato con il fascino violento delle sue contraddizioni, così drammaticamente rappresentative del tornante che l'umanità sta percorrendo, come ad un bivio fatale tra apocalisse e rigenerazione.
Lì, in mezzo ai colori furibondi del sangue e degli scippi, al fragore delle marmitte truccate e degli spari, ai sapori di pomodoro e agli odori di muffa, fogna e lenzuola appese ai balconi, matura un delitto di amici per la pelle che sfocia in un altro delitto. Ma la sua incubazione, durata 45 anni, è immersa nella tragedia sociale di un'umanità sorprendente, incapace di sollevarsi una volta per tutte contro le sue oppressioni in carne e ossa, come incapace di chinare il capo rassegnata a subire il tracollo definitivo. Napoli affascina perchè uno spicchio di Napoli è in tutti noi, che siamo un mutevole impasto di ambiguità in combattimento tra piccoli ricatti e lealtà, passività e intraprendenza, pigro narcisismo e generosità, fatalismo e imprenditorialità proletaria.
Attorno al delitto, Ermanno Rea ci fa respirare il “dolore della fatica e dell'indigenza” (p.109). In un universo di vicoli, scantinati ed ammezzati, le donne del Rione Sanità partecipavano con vecchi e bambini a una febbre produttiva che le portava a confezionare scarpe e guanti con una maestria senza pari in Europa. Con la bella stagione, le macchine da cucire comparivano parcheggiate nei vicoli. Le donne cantavano in coro e “l'allegria sembrava lubrificare l'efficienza e moltiplicare la produttività”. Se una di queste donne riusciva a comprare una Singer nuova firmando un mucchio di cambiali, tutte brindavano “come se fosse nato un bambino” (p.71). In quei vicoli Rea ci fa scoprire la strategica fiducia del militante comunista (arabo e musulmano!) che non trascura di dialogare anche con “Margheritella”, la pizzaiola fedelissima di Casa Savoia. C'è il prestigio della sua leadership sociale guadagnata nel soccorso quotidiano dei diseredati. C'è la sua anima data a sostenere le lotte sindacali per contendere alla prepotenza il prezzo dei guanti, prima che la “paccottiglia cinese” arrivasse a suonare “la campana a morto” per tutto quel “talento e operosità” (p. 59 e 54).
Accarezzando il “dolore del ritorno”, Rea non cede a descrizioni romantiche. La sua verità “è sempre in fondo al bicchiere, e per conoscerla bisogna berlo tutto” (p.215). Non ignora il degrado e la malavita, ma vede che essi “non costituivano la nota predominante”. In quel “fremere di dita esperte e laboriose” (p.70-71) legge una volontà di emancipazione che riabilitava Napoli come “città proletaria e produttiva”. Così me la fece scoprire Fabrizia Ramondino quando nella sua casa di via San Biagio dei Librai mi ha spiegato 40 anni fa che Giorgio Amendola la doveva finire di parlare sempre di “sottoproletariato straccione”, regolarmente preda delle manovre della destra. Solo un marxismo scolastico non voleva vedere quel continente di “proletariato precario”, fatto di disoccupati che lavoravano. Quella sinistra voleva far tornare a tutti i costi i suoi conti ed in larga parte evitò di incoraggiare, sostenere e orientare il loro movimento di lotta per un lavoro “stabile, sicuro e socialmente utile”. Diceva proprio così Fabrizia Ramondino nel 1974, presto scrittrice di successo e prematuramente scomparsa nel 2008.
Guarda un po' le connessioni che la lettura di Ermanno Rea fa riaffiorare e attiva nella mia memoria. Non sono solo voci che giungono dal passato e “hanno sempre un fascino irresistibile” (p.10). Ci ho trovato la rivoluzione partenopea del 1799, diventata mito grazie all'eroismo dei suoi martiri come Pasquale Baffi e con le ferite ancora da leccare delle tante rivoluzioni passive che ci hanno ripetutamente sconfitto, nonostante Antonio Gramsci dopo Vincenzo Cuoco. Ci ho trovato il mio incontro di ventenne sprovveduto e volenteroso con Fabrizia Ramondino (mi mandò a trovarla il mio amico-maestro Orso). Ci ho trovato la parola apocalisse che Piero Baral usò alla Fiat nell'autunno torbido del 1979 sentendo sulla sua pelle e sui suoi nervi arrivare con 61 licenziamenti la fine di una stagione e di una comunità operaia. Ci ho trovato la “politicizzazione del dolore sociale” praticata nei bassifondi 45 anni prima che Pablo Iglesias ne discutesse in Spagna con Inigo Errejon o Alexis Tsipras in Grecia con Varoufakis. Ci ho scoperto la figura di don Luigi Rega (nel Rione Sanità c'è oggi padre Zanotelli), che spiega ai suoi parrocchiani come “la sopravvivenza del pianeta terra” sia “ormai sospesa a un filo” e che solo “l'affermazione di un esteso e impetuoso spirito comunitario può assicurarci un briciolo di speranza” (p.198). Nella sua voce ho sentito la vibrazione di tanti credenti o non credenti che non perdono “la gioia della speranza, nonostante le nostre lotte e le nostre preoccupazioni per le sorti del pianeta”. Ci ho visto la spinta e le buone ragioni di quanti, con questo Papa o anche senza, sono in marcia alla ricerca di un mondo migliore, perché dignità è “rispetto di sé, rifiuto di ogni forma di ingiustizia, coraggio civile” (p.231).
In questo deserto, “di certe sconfitte ci si può innamorare e trasformarle in una sorta di compagnia necessaria” (p.198), ma è legge non attendere la manna dal cielo se vuoi attraversarlo. In questa bastarda temperie, la scienza economica di Luciano Gallino e della sua “lotta di classe dopo la lotta di classe” si allea con il magistero di Danilo Dolci che sapeva promuovere, ordinare e ascoltare le “conversazioni contadine” nella Partinico del 1961. La stessa arte e la stessa poesia dava al medico protagonista di “Nostalgia” l'insegnamento più prezioso: il suo “cattivo maestro” era “troppo circospetto, troppo amendoliano”, ma sapeva dialogare anche con Margheritella, la pizzaiola “monarchica sfegatata” (p. 55-56) e ascoltava tutti “in silenzio, ma mai con indifferenza”(p.33).

Mario Dellacqua

ERMANNO REA, Nostalgia, Feltrinelli 2016, pp.275, euro 18.

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