Su
per giù dodicenne, è la sorella più grande di sicuro. Il suo
grembiule smanicato a righe è indossato su una maglietta bianca,
pronta a reggere un seno che non c'è ancora. Invece, il suo gomito
contiene una creatura avvolta in un completino bianco: un biberon
spunta tra due occhi stupiti e smarriti. Il suo portamento è già
misurato da uno sguardo carico di precoce responsabilità e da una
contrazione vagamente materna sulle labbra. Con la sinistra tiene per
mano l'altro fratellino, un ricciolino con una canottiera invernale
unta e bucata sotto l'ascella, occhi allenati a lacrime reduci da un
millenario rimprovero.
La sorella più grande ha tutta l'aria di
provenire dalla stessa stanza dove l'acqua scorre per la latrina e
per l'acciottolio dei piatti. Però un non so che di imperioso
accende il suo sguardo. I capelli neri a caschetto e la frangia ben
curata tradiscono una dignità desiderata, ma non ancora gridata:
un'ambizione umile, forse nutrita da suggestioni televisive miste ad
acerbe frequentazioni adolescenziali. Il trio randagio ha tutta
l'aria di non fidarsi della luce che, in un corridoio buio di pareti
sconce e pavimento sgretolato, sembra guidarli verso il vicolo o il
cortile. L'obiettivo di Mimmo Judice coglie la mezza famiglia dove
tutti i giorni è libera e non sa dove andare.
In
questa istantanea che l'editore Feltrinelli ha scelto per la
copertina, c'è già tutto il dolore, la poesia e la resistenza
dell'ultimo romanzo che, poco prima di lasciarci a settembre dello
scorso anno, Ermanno Rea ha dedicato alla sua Napoli, la città che
non ha mai abbandonato con il fascino violento delle sue
contraddizioni, così drammaticamente rappresentative del tornante
che l'umanità sta percorrendo, come ad un bivio fatale tra
apocalisse e rigenerazione.
Lì,
in mezzo ai colori furibondi del sangue e degli scippi, al fragore
delle marmitte truccate e degli spari, ai sapori di pomodoro e agli
odori di muffa, fogna e lenzuola appese ai balconi, matura un delitto
di amici per la pelle che sfocia in un altro delitto. Ma la sua
incubazione, durata 45 anni, è immersa nella tragedia sociale di
un'umanità sorprendente, incapace di sollevarsi una volta per tutte
contro le sue oppressioni in carne e ossa, come incapace di chinare
il capo rassegnata a subire il tracollo definitivo. Napoli affascina
perchè uno spicchio di Napoli è in tutti noi, che siamo un mutevole
impasto di ambiguità in combattimento tra piccoli ricatti e lealtà,
passività e intraprendenza, pigro narcisismo e generosità,
fatalismo e imprenditorialità proletaria.
Attorno
al delitto, Ermanno Rea ci fa respirare il “dolore
della
fatica
e
dell'indigenza”
(p.109). In
un universo di vicoli, scantinati ed ammezzati, le donne del Rione
Sanità partecipavano con vecchi e bambini a una febbre produttiva
che le portava a confezionare scarpe e guanti con una maestria senza
pari in Europa. Con la bella stagione, le macchine da cucire
comparivano parcheggiate nei vicoli. Le donne cantavano in coro e
“l'allegria
sembrava lubrificare l'efficienza e moltiplicare la produttività”.
Se una di queste donne riusciva a comprare una Singer nuova firmando
un mucchio di cambiali, tutte brindavano “come
se fosse nato un bambino” (p.71).
In quei vicoli Rea ci fa scoprire la strategica fiducia del militante
comunista (arabo e musulmano!) che non trascura di dialogare anche
con “Margheritella”,
la
pizzaiola
fedelissima
di Casa Savoia.
C'è il prestigio della sua leadership sociale guadagnata nel
soccorso quotidiano dei diseredati. C'è la sua anima data a
sostenere le lotte sindacali per contendere alla prepotenza il prezzo
dei guanti, prima che la “paccottiglia
cinese”
arrivasse a suonare “la
campana a
morto”
per
tutto
quel
“talento e operosità” (p.
59 e 54).
Accarezzando
il “dolore
del ritorno”,
Rea non cede a descrizioni romantiche. La
sua
verità
“è sempre in fondo al bicchiere, e per conoscerla bisogna berlo
tutto” (p.215).
Non ignora il degrado e la malavita, ma vede che essi “non
costituivano la nota predominante”.
In quel “fremere
di dita esperte e laboriose” (p.70-71)
legge una volontà di emancipazione che riabilitava Napoli come
“città
proletaria
e
produttiva”. Così
me la fece scoprire Fabrizia Ramondino quando nella sua casa di via
San Biagio dei Librai mi ha spiegato 40 anni fa che Giorgio Amendola
la doveva finire di parlare sempre di “sottoproletariato
straccione”,
regolarmente preda delle manovre della destra. Solo un marxismo
scolastico non voleva vedere quel continente di “proletariato
precario”,
fatto di disoccupati che lavoravano. Quella sinistra voleva far
tornare a tutti i costi i suoi conti ed in larga parte evitò di
incoraggiare, sostenere e orientare il loro movimento di lotta per un
lavoro “stabile,
sicuro
e
socialmente utile”.
Diceva proprio così Fabrizia Ramondino nel 1974, presto scrittrice
di successo e prematuramente scomparsa nel 2008.
Guarda
un po' le connessioni che la lettura di Ermanno Rea fa riaffiorare e
attiva nella mia memoria. Non sono solo voci che giungono dal passato
e “hanno
sempre un fascino irresistibile” (p.10).
Ci ho trovato la rivoluzione partenopea del 1799, diventata mito
grazie all'eroismo dei suoi martiri come Pasquale Baffi e con le
ferite ancora da leccare delle tante rivoluzioni
passive
che ci hanno ripetutamente sconfitto, nonostante Antonio Gramsci dopo
Vincenzo Cuoco. Ci ho trovato il mio incontro di ventenne sprovveduto
e volenteroso con Fabrizia Ramondino (mi mandò a trovarla il mio
amico-maestro Orso). Ci ho trovato la parola apocalisse
che Piero Baral usò alla Fiat nell'autunno torbido del 1979 sentendo
sulla sua pelle e sui suoi nervi arrivare con 61 licenziamenti la
fine di una stagione e di una comunità operaia. Ci ho trovato la
“politicizzazione
del
dolore
sociale”
praticata nei bassifondi 45 anni prima che Pablo Iglesias ne
discutesse in Spagna con Inigo Errejon o Alexis Tsipras in Grecia con
Varoufakis. Ci ho scoperto la figura di don Luigi Rega (nel Rione
Sanità c'è oggi padre Zanotelli), che spiega ai suoi parrocchiani
come “la
sopravvivenza del pianeta terra” sia
“ormai
sospesa a un filo”
e che solo
“l'affermazione di un esteso e impetuoso spirito
comunitario
può assicurarci un briciolo di speranza”
(p.198). Nella sua voce ho sentito la vibrazione di tanti credenti o
non credenti che non perdono “la
gioia
della
speranza,
nonostante
le
nostre
lotte
e
le
nostre
preoccupazioni
per
le
sorti
del
pianeta”.
Ci ho visto la spinta e le buone ragioni di quanti, con questo Papa o
anche senza, sono in marcia alla ricerca di un mondo migliore, perché dignità è “rispetto
di sé, rifiuto di ogni forma di ingiustizia, coraggio civile”
(p.231).
In
questo deserto, “di
certe sconfitte ci si può innamorare e trasformarle in una sorta di
compagnia necessaria”
(p.198), ma è legge non attendere la manna dal cielo se vuoi
attraversarlo. In questa bastarda temperie, la scienza economica di
Luciano Gallino e della sua “lotta
di classe dopo la lotta di classe” si
allea con il magistero di Danilo Dolci che sapeva promuovere,
ordinare e ascoltare le “conversazioni
contadine”
nella Partinico del 1961. La stessa arte e la stessa poesia dava al
medico protagonista di “Nostalgia”
l'insegnamento più prezioso: il suo “cattivo
maestro”
era “troppo
circospetto, troppo amendoliano”,
ma sapeva dialogare anche con Margheritella, la pizzaiola “monarchica
sfegatata”
(p. 55-56) e ascoltava tutti “in
silenzio, ma mai con indifferenza”(p.33).
Mario
Dellacqua
ERMANNO
REA, Nostalgia,
Feltrinelli 2016, pp.275, euro 18.
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