Foto di Claudio BONIFAZIO |
Foto di Claudio BONIFAZIO |
In
una comunità locale come la nostra, la conflittualità sociale che
può alimentare la dialettica politica è bassa perchè il ceto medio
si è sin qui dimostrato capace di assorbire i ripetuti colpi che la
crisi economica ha inflitto a redditi, sicurezze, prospettive. Il
ceto medio (un frastagliato arcipelago sociale nato dalla diffusione
negli anni sessanta e settanta delle famiglie di operai, artigiani e
commercianti con doppio stipendio, casa in proprietà, figli a scuola
fino all'Università, vacanze e automobile) ha visto progressivamente
erodersi - in qualche caso sgretolarsi - i suoi redditi.
Ma
grazie ai risparmi accumulati, alla casa in proprietà, alla
pensione, il ceto medio è riuscito a metabolizzare, mascherare o
amministrare l'impatto derivante dalla caduta verticale
dell'occupazione giovanile combinata con la desertificazione degli
stabilimenti Fiat e Indesit, pur attutita e diluita nel tempo
dall'intervento della cassa integrazione, degli assegni di mobilità,
dei lavori socialmente utili. Questi ultimi, in particolare, hanno
salvaguardato il reddito e accompagnato il rientro a casa della
manodopera femminile anche più di dieci anni dopo l'espulsione dal
ciclo produttivo.
I
fenomeni dell'impoverimento oggi colpiscono chi ha perso il lavoro e
non riesce più a pagare l'affitto che prima costituiva in qualche
caso un reddito aggiuntivo per segmenti del ceto medio sopra
descritto. Tali fenomeni dell'impoverimento sono nascosti o isolati.
Li descrive bene la recente intervista alla Caritas del “Mondo
di None”. In qualche caso sono sconosciuti. Raramente emergono
in superficie e quasi mai sono percepiti come problema collettivo.
Finora non si sono tradotti in manifestazioni clamorose o
destabilizzanti. Sembrano protetti da comportamenti remissivi,
tutelati dalla vergogna o addirittura dall'introiezione di sensi di
colpa. Sono ripiegati nella discrezione e nell'attesa dignitosa di
interventi di assistenza delle istituzioni o del volontariato. Non si
sa bene quanti siano. Sono sempre troppi, ma non costituiscono una
minaccia per la serenità della coesione sociale. Il loro dramma si
consuma nella disperazione privata e non valica i confini della
compassionevole commiserazione pubblica. Chi non conosce esempi
ravvicinati di separazioni violente, dispersione scolastica,
tossicodipendenza, microcriminalità?
In
questo contesto, il voto non esprime un desiderio di cambiamento.
Quel cambiamento è una fatica difficile da definire prima ancora che
da attuare. Si desidera essere rappresentati nelle istituzioni da chi
ci assomiglia di più nella prevalente aspirazione ad una vita
democratica tranquilla, ad una buona amministrazione con basso tasso
di litigiosità o conflittualità, onesta, e soprattutto
rassicurante, cioè senza scosse all'equilibrio del nostro lessico
famigliare. Naturalmente, in forma più o meno disciplinata, ogni
tanto emerge il desiderio di un “vago avvenir che in mente
avevi” e affiora l'illusione (apparentemente innocua) che
l'almanacco nuovo porti la vita bella che non si conosce. Quella
passata non la puoi rincorrere anche se hai un po' di nostalgia
(stavamo meglio quando stavamo peggio). Quella presente non la vuoi
vedere ulteriormente minacciata nelle sue superstiti sicurezze dagli
immigrati, dalle alluvioni, dai furti nelle case, dalle deiezioni
canine, dalle buche nelle strade, dalle multe dei vigili. Meglio
protestare ogni tanto contro il politico che “non rende
poi quel che promette allor”. (Sto ribazzicando Leopardi).
Tutto in attesa di rientrare nei ranghi, di “ricomporsi del
tutto”, dopo aver preso “con l'immaginazione una boccata
d'aria nel mondo” (qui ho rapinato Pirandello).
Se
il quadro descritto è vicino al vero, ne consegue la necessità di
accettare che pensieri, aspirazioni, interessi e comportamenti di un
blocco sociale così approssimativamente configurato, siano
rappresentati dagli attuali assetti sedicenti solidali e
progrediti. Ne consegue anche che Progetto comune può
ritenersi soddisfatto del ruolo di stimolo, di proposta, di controllo
e di sollecitazione svolto dalla sua presenza democratica. Essa
potrà arricchirsi, qualificarsi, conquistare credibilità e consensi
se con la sua azione saprà contendere alla palude della quiete
pubblica rappresentanze crescenti delle aree sociali subalterne, di
giovani ribelli, di cittadini consapevoli, di insegnanti anche
socialmente attivi, di pensionati strappati al pettegolezzo e via
rianimando umanità.
Il
dialogo con le aree sociali dominate dalla passività e reduci dal
decennio delle coccole non va affrontato con le invettive e le
scomuniche. Va affrontato con la costanza dell'impegno dedicato a
presentare proposte, a sollecitare la ricerca di soluzioni, a
coinvolgere i deboli e i capaci nell'azione diretta e orgogliosa
dell'associazionismo politico, nella collaborazione e nel conflitto,
a seconda dei casi. Trasformare il passivo in attivo è il nostro
sereno assillo. E' il medesimo problema che si era posto Giacomo
Ulivi, il giovane partigiano modenese fucilato a 19 anni nel novembre
del '44.
“Ecco
per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi
tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla
famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e
soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio
invincibile di "quiete", anche se laboriosa è il segno
dell'errore. Perché in questo bisogno di
quiete
è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni
manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile,
credetemi, risultato di un'opera di diseducazione ventennale, di
diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent'anni
da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei
pregiudizi. Fondamentale quello della 'sporcizia'
della
politica...” eccetera.
A noi
tocca un'opera di autorieducazione collettiva. Ventennale. Ventennale
a chi?
Mario
Dellacqua
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