Gli oppositori della
“furia iconoclastica meramente finalizzata all'ingresso nell'area di governo”
(p.106) erano vittime del loro stesso “narcisismo laido” (p.196) e gettavano
Trentin tra le braccia di “una voglia tremenda di mollare tutto” (p.144) e di
rifugiarsi tra le pipe o tra le rocce di San Candido. Gli sembrava assurdo “il
crinale riformismo-neocomunismo” (p.164) che trovava “la sola ragione della
convivenza” nella “opportunità offerta per la distruzione dell'altro” o nella
“lotta per la spartizione del patrimonio del passato” (p.270 e 277).
Considerava “triste” la scelta di Pietro Ingrao catturato da “quattro
avventurieri” votatisi a una “scissione casalinga” per un'operazione di
potere”(p.167) nella “torbida politica italiana”(p.170).
MORALITA' PERDUTA
Il nocciolo duro e vivo
del pensiero di Trentin sta però nell'affermazione che “la moralità della
sinistra nasce dalla sua coerenza riformatrice” (p.287). Il messaggio “nella
solita bottiglia affidata all'oceano” che nutre la sua “terribile voglia di
fuggire e ricominciare” (p.297) approda a una trascurata convinzione: “la
famosa questione morale che sta trascinando inevitabilmente la politica nel
fango, nella disistima e nel ribrezzo” nasce “dalla sostituzione del progetto
riformatore con la governabilità, con l'esercizio del potere come origine e
fine della politica”. Questa afonia che mette il “gesto al posto del progetto”
(p.346), consegna “la questione morale al servizio di una miserabile lotta fra
schieramenti”, per distribuire accuse, poteri e legittimazioni “in attesa di
una nuova questione morale” (p.310). Nell'attesa, il conflitto di classe rimane
confinato nel suo ambito “meramente distributivo” (p.371) e rimane inalterato
“il vecchio assioma” che considera la “redistribuzione dei redditi e dei titoli
di proprietà” la strada obbligata per “liberare l'uomo dal lavoro, legittimando
la sua fatica con l'accesso al consumo e alla proprietà” (p.453). In questa
luce, sia l'azionariato popolare, sia la “formula rigidamente unificante” della
riduzione generalizzata dell'orario di lavoro, sia le varie forme escogitabili
di reddito minimo garantito, sia le “Humain Relations”, sia la meritocrazia
socialista considerano invalicabile il carattere alienato e oppresso del
lavoro, ignorano ogni possibilità di un suo mutamento, ghettizzano il non
lavoro e nascondono la rinuncia a contrattare interventi graduali per
umanizzarlo e per indebolire “il sistema di potere che ne espropria la
creatività” (p.402-403-419-459).
Il risultato
obbligatorio è l'emersione prepotente del “nemico o del capro espiatorio”, è
il “bisogno della divisione come
affermazione disperata della propria identità”, è l'illusione che “l'esibizione
di una forza debole e divisa” possa “mutare la condizione di chi, con un suo
sacrificio, vi partecipa” (p.323-324). Una volta nel baratro, scompare la
funzione del sindacato generale che è “quella di produrre solidarietà”, si
considera l'unità sindacale come il nemico da battere perchè “la prova unitaria
costringe ad uscire dal particolare” e rompe la base di consenso su cui si
regge chi ha scelto un “obiettivo di scissione” (p.337). (CONTINUA)
Mario Dellacqua
S. GARAVINI, Ripensare
l'illusione, Rubettino, 1999.
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