Non
penso si abbia il diritto di rimproverare a Trentin la violenza degli
epiteti e delle immagini riservata nel suo diario alla liquidazione
della Cisl o di Bertinotti e della sua “Armata Brancaleone”. Nè
gli si può rinfacciare alcuna forma di doppiezza e reticenza.
Primo.
Lo stesso Trentin non nasconde le sue corresponsabilità per le
derive massimaliste o le afasie programmatiche assunte dalla sinistra
e dal movimento sindacale italiano: anzi sottopone ad impietosa
autocritica “molti atti mancati, molti progetti troncati, molte
amicizie interrotte, molte cose non dette quando potevo e dovevo...”
(p.255). Quando respira “un'aria di lotta selvaggia e senza pietà
che è tipica di un'organizzazione sconfitta” (p.443), percepisce
questo “squallore morale” come un suo “personale fallimento”
(p.288). “Queste rovine umane e morali sono anche cosa mia e ne
porto una parte di responsabilità” (p.360).
Secondo.
Basta rileggere “La libertà viene prima” per accertare sul campo
che Trentin non si autocensurò ed anzi denunciò con un accanimento
quasi rabbioso quelle afasie e quelle derive, sancite dalla
sterilizzazione di tutti i suoi tentativi di dare una coerente
configurazione programmatica (non un cosmetico patriottismo
identitario) sia al movimento sindacale sia alle evoluzioni
accidentate della sinistra post comunista. La sua proposta di
“Partito del Lavoro” cadde nel dimenticatoio. E la federazione –
non la fusione – tra Ds e Margherita che invocava per consentirgli
di “morire socialista”, fece la stessa fine.
Terzo.
Lo scioglimento del Pci è nelle mani di Trentin uno sconvolgimento
che non si esaurisce nella scissione rifondarola. In quell'ora “e
cielo e terra si mostrò qual era”. La sinistra saltò per aria. I
suoi tanti pezzi caddero sulla Cgil, ne sfondarono le pareti e ne
minarono le fondamenta mentre, insieme a Tangentopoli, la bufera
della crisi finanziaria si abbattè sull'economia italiana e preparò
il cimento degli accordi con i governi di Amato e di Ciampi.
AVVOLTOI,
BURATTINI, MUMMIE E VIPERE
Nei
suoi diari Trentin scavava alla ricerca più autentica delle sorgenti
di quelle rimozioni, di quei rinvii, di quegli atti mancati e di
quelle sapienti indeterminatezze. Le trovava non solo nelle
“meschinerie della lotta politica e di potere nella Cgil” (p.93),
nella “ressa di avvoltoi intorno alla Cgil” (p.173) e nei
“tormenti di carriera”(p.111) che agitavano “burattini”,
“marionette”, “mummie contente di respirare ancora”,
“mercanti di tappeti” e “nidi di vipere”
(p.106-205-270-274-277). Gran parte di “questuanti e autocandidati“
alimentavano la sua depressione(p.237) perchè bravi a improvvisare
“una ragione cosmica pur di rendere “insostituibile” la loro
“presenza nella miserabile plancia di comando”(p.241). Le trovava
nella “finzione dell'attenzione reciproca”(p.223) che tradiva più
sfoggio di “testimonianze. Dialogo mai”(p. 202 e 257)). Le
trovava perchè c'erano nel “piccolo cabotaggio” che accantonava
l'alternativa programmatica” (p.106-107) grazie ad una “resistenza
ottusa e a ripicche personali” (p.133). Essa spingeva a “salire
su qualsiasi treno pur di non restare in stazione” (p.118). Il
risultato era un “impoverimento morale” che scatenava “tutti
contro tutti” e sfigurava le convergenze politiche trasformandole
in “fedeltà personali” e “complicità di cordata”(p.171). Il
conflitto programmatico e ideale lasciava il posto ad “un conflitto
tribale nel quale la discriminante diventa la fiducia nel
capo”(p.243). Insomma, salvava pochi dirigenti della Cgil, come ha
scritto a suo tempo Aldo Amoretti. (CONTINUA)
Mario
Dellacqua
ARIEMMA
(a cura di), Bruno Trentin Diari 1988-1994, Ediesse, 2017, pag. 482,
euro 22.
S.
GARAVINI, Ripensare l'illusione, Rubettino, 1999.
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