Come non nutrire
simpatia per Papa Francesco quando dice di non ricordare bene se sia stato
Paolo VI o Pio XII a indicare nella politica la forma più alta di carità? Che
invita il gregge dei fedeli a pregare per lui e “quelli che non possono
pregare” li esorta “con tutto rispetto” a mandargli una “buona onda”?
Che mette in guardia la
costellazione multiforme dei movimenti popolari dal pericolo di confinare la
loro azione nella sfera caritativa delle cooperative, delle mense, degli orti
agroecologici trascurando il potere delle caste avvinghiate al loro monopolio
sulle grandi decisioni?
Mentre invita a non aver
“paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola”,
il Papa chiede ai movimenti popolari di “non lasciarsi imbrigliare” e
imprigionare “nella casella delle politiche sociali”, ma di trasformarsi in
soggetto costruttore di lotta sociale per salvare l'umanità dalla cultura dello
scarto che porta alla fine del mondo. Casa, terra, lavoro, redistribuzione,
economia solidale e sostenibile, istruzione, salute, opportunità,
partecipazione dal basso, dignità, redistribuzione, austerità: questo è il
messaggio che il pontefice lancia nei tre discorsi recentemente pubblicati dal “manifesto”
(a cura di Alessandro Santagata con prefazione di Gianni La Bella e
un'intervista a Juan Garbois, leader della Confederacion de Trabajadores de la
Economia popular).
Come non sentire
ammirazione per un Papa che si rivolge ai movimenti popolari non con l'intento
egemonico di inglobarli nelle geografie vaticane, ma per promuovere una
sollevazione non violenta di tutti i popoli e di tutti gli uomini di buona
volontà contro la “inequità” di un'economia che uccide?
E come non stupirsi con
soddisfazione nell'apprendere che lo fa senza chiedere abiure a chi non
obbedisce al magistero della Chiesa in tema di sessualità e di diritti civili,
così dimostrando sul campo di saper
rispettare la pluralità multietnica e multireligiosa delle ispirazioni culturali
che attraversano i movimenti?
Come non rilevare la
netta rottura di continuità con l'interclassismo della dottrina sociale
tradizionale che emerge quando il Papa riconosce al conflitto sociale un ruolo
democratico e non distruttivo della coesione sociale?
Come non osservare la
sintonia fra l'ispirazione del Papa e il travaglio in corso nelle sinistre
europee, alle prese con gli esiti fallimentari del potere conquistato con
l'assalto al Palazzo d'inverno – nella versione sovietica – e con l'ingresso
nella stanza dei bottoni nelle declinazioni tedesche, inglesi o italiane?
Bruno Trentin criticava
l'approccio leninista che vincolava la trasformazione della società
all'occupazione dello Stato e giocava tutta la partita della democrazia sul
tavolo della conquista del potere.
Papa Bergoglio, dal
canto suo, afferma che la scelta da fare è quella di “generare processi e non
di occupare spazi”. “La passione per il seminare, per l'irrigare con calma ciò
che gli altri vedranno fiorire sostituisce l'ansia di occupare tutti gli spazi
di potere disponibili e vedere risultati immediati”.
Se l'obiettivo non è la
conquista del potere, centrale è la costruzione del nostro mondo. Si otterranno
migliori risultati non se riusciremo a distruggere la controparte, ma se ci
concentreremo sul nostro fare scavando nell'utopia del quotidiano.
La Chiesa accoglierà
l'invito del Papa ad uscire o preferirà rimanere sul pianerottolo? A sinistra,
il seme lanciato troverà terreno fertile o verrà beccato dai corvi?
PAPA FRANCESCO, Terra,
casa, lavoro, Ponte alle Grazie, pp. 142, euro 10 (con il manifesto).
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