lunedì 11 dicembre 2017

LAVORO: C’E’ DAVVERO UNA STRADA MIGLIORE?


Reddito di base, settimana lavorativa di quindici ore e confini aperti. E’ una “utopia per realisti”, dice Rutger Bregman. Zygmunt Bauman ha considerato “geniale e davvero illuminante” l’irruzione della sua opera, che però risulta sconcertante in un paesaggio di economisti e di sociologi dominati dall’ideologia del neoliberismo  travestita da fine delle ideologie.

In questo spazio severamente delimitato e ben arredato, studiosi come Jennifer Nedelsky, Luigino Bruni, Nicola Cacace, Giorgio Lunghini, Laura Pennacchi, Pierre Carniti, Alessandra Smerilli o Savino Pezzotta faticano a farsi luce. Il fatto è che, pur non appartenendo alla medesima scuola, hanno in comune la pervicace predisposizione a aggirarsi con le loro tormentate ricerche attorno al rapporto da istituire fra una legislazione del reddito garantito, la riduzione degli orari di lavoro, il riformato peso da attribuire agli interventi di cura delle persone e dell’ambiente. Questo loro sospetto rovistare è all’origine dell’emarginazione che li colpisce e un’aria di sufficienza li circonda.
E, nella fattispecie, che cosa dice Bregman di così scandaloso e inaccettabile? Dice che il lavoro è diventato un bene disprezzato dalla sovrabbondanza persistente della sua offerta. Dice che la produttività è salita a livelli record e che l’intelligenza artificiale dei robot dell’industria 4.0 produrrà meno reddito e meno posti di lavoro. Con le loro magnifiche sorti e progressive, i robot spegneranno gli allarmi della conflittualità sociale. Non pretenderanno ferie o maternità. Non sarà facile convincerli a prendere una tessera sindacale, ma sarà ancora più difficile trovargli in tasca i soldi necessari a comprare automobili, vacanze o elettronica di ultima generazione.
Dice che questo lavoro riservato a un campione sempre meno rappresentativo di persone non permetterà più di separare il tempo della prestazione dal tempo libero perché lo smartphone ti terrà al guinzaglio per 80 o 90 ore alla settimana. Dice che questo processo cancella un’evidenza vitale: il miglior uso della ricchezza è avere più tempo libero, ma lo abbiamo sacrificato sull’altare del consumismo per avere in cambio una ricchezza che ci impoverisce.
Dice che per combattere la plastica, le malattie, le mutazioni catastrofiche del clima, gli incendi e le alluvioni ci sarebbe bisogno di ingegneri, netturbini, infermieri, insegnanti, medici. Invece si moltiplicano i banchieri, i bancari, gli avvocati e i commercialisti: tutti mestieri-burla di cui si può fare tranquillamente a meno perchè la ricchezza la spostano e non la creano. E ha il becco di aggiungere che quasi tutti sono capaci di raccogliere pattume, ma solo pochi eletti fanno carriera nelle banche.
Non contento, Bregman dice che la povertà non è un difetto caratteriale come pensava la Thatcher o un derivato della pigrizia e dell’inclinazione genetica al vizio come pensava Reagan. Non è una carenza di spirito, ma una carenza di soldi. Essa spinge gli scartati alla violenza perché la povertà è meno sopportabile di fronte allo spettacolo delle disuguaglianze, mentre lo era relativamente più sopportabile nella prima metà dell’Ottocento quando  l’84% della popolazione era ugualmente povera.  E oggi, dice Bregman, ogni dollaro investito in un senza tetto o in un disoccupato restituisce il triplo se non di più  come risparmio nei costi di sanità, polizia e tribunali.
Il rimedio è un nuovo movimento di lavoratori “che combatta non solo per più posti o per stipendi più alti, ma per un lavoro che abbia un valore intrinseco”.
Ma, in un mondo spalancato a tutto quanto non sia una persona, ecco l’ostacolo che anche un olandese come Bregman può scorgere in Europa: è la presenza massiccia dei “socialisti perdenti”, un numeroso e agguerrito ceto politico sprovvisto dell’”ingrediente principale del cambiamento politico: la convinzione che c’è davvero una strada migliore”. 
Interrogata sull’argomento, Margareth Thatcher riconobbe il suo più grande successo nel trionfo del New Labour che, sotto la guida di Blair, aveva portato i suoi irriducibili rivali ad abbracciare le sue idee. Incentivi, sgravi fiscali, deregolamentazioni legislative e sindacali, libertà per le imprese di precarizzare il lavoro, privatizzazioni, riduzioni della spesa pubblica e delle prestazioni sociali libereranno risorse capaci di far sgocciolare sui ceti colpiti dalla ristrutturazione globalizzante del capitalismo una pioggia di investimenti, di posti di lavoro e di bonus di compassionevole soccorso.
Beninteso: il socialista perdente trova ingiuste le politiche correnti e si schiera sempre dalla parte dei diseredati, ma quando il gioco si fa duro spiega che non c’è alternativa e si piega alle tesi dei suoi competitori neoliberisti. D’altra parte, l’economia di mercato è come l’alta marea che sospinge in alto il peschereccio come lo yacht, diceva la Reaganomics. Arricchirsi è glorioso, diceva Den Hsiao Ping. E  solo Bob Kennedy diceva che il prodotto nazionale lordo misura tutto, tranne quello che rende la vita degna di essere vissuta.
Al contrario, il socialista perdente mette a tacere le idee radicali serpeggianti tra le sue fila per la paura di perdere voti. Così perde il sostegno degli uni che si sentono abbandonati e degli altri che non si sono mai fidati. Ma Bregman è olandese o italiano?
Mario Dellacqua 
R. BREGMAN, Utopia per realisti, Feltrinelli,   p.251, euro 18.

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