Nell’età del neoliberismo, l’impresa ha effettivamente assunto una missione educativa, ma alla docilità, alla precarietà e alla ricattabilità dei lavoratori. Non si sogna di rispondere alle sollecitazioni della dottrina sociale della Chiesa che assegna all’impresa il compito di produrre ricchezza al servizio del “bene comune”.
Con l’aria che tira, l’impresa efficiente è quella capace di agire sull’innovazione di processo che comprime i costi, i diritti e le sicurezze. L’innovazione che potrebbe elevare la qualità del prodotto è tralasciata. L’impresa efficiente non è quella che tratta i dipendenti come persone scommettendo sulla loro dignità, merito e responsabilità, ma è quella dove i lavoratori e le lavoratrici subiscono la minaccia quotidiana di perdere il posto non vedendosi rinnovare il contratto.
Venuto meno il contrappeso democratico rappresentato dai poteri contrattuali del movimento sindacale, aumentano il lavoro povero, i tirocini sottopagati, i contratti a chiamata, l’occupazione intermittente a basso valore aggiunto. Lasciamo perdere l’alternanza scuola lavoro: spesso e volentieri educa ad accettare senza fiatare una gavetta dove trovi retribuzioni fittizie e molto raramente trovi l’apprendimento di un mestiere. Arretrano il lavoro di qualità e i contratti stabili.
Torino è indietro come numero di laureati: chi studia scappa dopo aver conquistato il mitico pezzo di carta. Le sfide dell’industria 4.0 hanno bisogno di formazione continua e di costante aggiornamento, perchè ogni competenza acquisita diventa presto obsoleta. Eppure nel 2016 solo il l8% della forza lavoro partecipa in Italia a corsi di formazione, mentre in Francia siamo a più del doppio. La Repubblica è fondata sul lavoro, ma il lavoro richiede investimenti nella formazione continua.
La via della difesa occupazionale passa dalla riduzione degli orari e da una redistribuzione del lavoro (e del reddito): a meno che ci si rassegni a un domani con una minoranza sempre più piccola di lavoratori relativamente stabili e relativamente tutelati in mezzo a una maggioranza straripante di stabilmente esclusi. Qui mi si può accusare di appartenere al ceto radical chic dei tecnofobi. Ma senza diversa ripartizione del tempo fra lavoro produttivo di beni e lavoro di cura dell’ambiente, dei bambini, dei malati e degli anziani (ora quasi tutto sulle spalle delle donne), mi pare difficile arginare la tendenza a contrarre l’occupazione. In queste condizioni, la retorica sulle magnifiche sorti e progressive dell’economia digitale risulta poco convincente.
Gli investimenti pubblici: un altro capitolo doloroso. In Italia gli investimenti pubblici in conto capitale – scrive Guglielmo Epifani – sono calati del 30% e il PIL è calato negli anni della crisi in corso di quasi il 10%. Questa è la radice della perdita di coesione e di competitività dell’Italia.
Mia rielaborazione da G. EPIFANI, E’ la politica economica non condivisa, in Nuovi Lavori; S. PAROLA, Enrica Valfrè L’innovazione è necessaria, Repubblica, 4 dicembre 2017; G. AJASSA, Solo con la formazione, Repubblica, 4 dicembre 2017.
Vedi anche www.sindacalmente.org. Mario Dellacqua
Con l’aria che tira, l’impresa efficiente è quella capace di agire sull’innovazione di processo che comprime i costi, i diritti e le sicurezze. L’innovazione che potrebbe elevare la qualità del prodotto è tralasciata. L’impresa efficiente non è quella che tratta i dipendenti come persone scommettendo sulla loro dignità, merito e responsabilità, ma è quella dove i lavoratori e le lavoratrici subiscono la minaccia quotidiana di perdere il posto non vedendosi rinnovare il contratto.
Venuto meno il contrappeso democratico rappresentato dai poteri contrattuali del movimento sindacale, aumentano il lavoro povero, i tirocini sottopagati, i contratti a chiamata, l’occupazione intermittente a basso valore aggiunto. Lasciamo perdere l’alternanza scuola lavoro: spesso e volentieri educa ad accettare senza fiatare una gavetta dove trovi retribuzioni fittizie e molto raramente trovi l’apprendimento di un mestiere. Arretrano il lavoro di qualità e i contratti stabili.
Torino è indietro come numero di laureati: chi studia scappa dopo aver conquistato il mitico pezzo di carta. Le sfide dell’industria 4.0 hanno bisogno di formazione continua e di costante aggiornamento, perchè ogni competenza acquisita diventa presto obsoleta. Eppure nel 2016 solo il l8% della forza lavoro partecipa in Italia a corsi di formazione, mentre in Francia siamo a più del doppio. La Repubblica è fondata sul lavoro, ma il lavoro richiede investimenti nella formazione continua.
La via della difesa occupazionale passa dalla riduzione degli orari e da una redistribuzione del lavoro (e del reddito): a meno che ci si rassegni a un domani con una minoranza sempre più piccola di lavoratori relativamente stabili e relativamente tutelati in mezzo a una maggioranza straripante di stabilmente esclusi. Qui mi si può accusare di appartenere al ceto radical chic dei tecnofobi. Ma senza diversa ripartizione del tempo fra lavoro produttivo di beni e lavoro di cura dell’ambiente, dei bambini, dei malati e degli anziani (ora quasi tutto sulle spalle delle donne), mi pare difficile arginare la tendenza a contrarre l’occupazione. In queste condizioni, la retorica sulle magnifiche sorti e progressive dell’economia digitale risulta poco convincente.
Gli investimenti pubblici: un altro capitolo doloroso. In Italia gli investimenti pubblici in conto capitale – scrive Guglielmo Epifani – sono calati del 30% e il PIL è calato negli anni della crisi in corso di quasi il 10%. Questa è la radice della perdita di coesione e di competitività dell’Italia.
Mia rielaborazione da G. EPIFANI, E’ la politica economica non condivisa, in Nuovi Lavori; S. PAROLA, Enrica Valfrè L’innovazione è necessaria, Repubblica, 4 dicembre 2017; G. AJASSA, Solo con la formazione, Repubblica, 4 dicembre 2017.
Vedi anche www.sindacalmente.org. Mario Dellacqua
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