domenica 23 febbraio 2014

Solo cose e non uomini nel carrello della spesa di Mr. Freud


C’era una volta una salumeria e la persona che la gestiva aveva molte nozioni e molte qualità. Poteva scegliere tra tanti commercianti all’ingrosso da cui rifornirsi in base ai prezzi e alle caratteristiche che riteneva migliori. Aveva la sua nutrita schiera di clienti dei quali aveva imparato a conoscere le esigenze, i gusti e le abitudini. 
Aveva trattato direttamente i suoi acquisti e aveva tutte le informazioni  per potere dare consigli ai suoi clienti e meglio indirizzare le proprie vendite. Naturalmente i suoi discorsi non erano obiettivi in assoluto, in qualche misura si piegavano alla necessità di persuadere il cliente, tuttavia, la loro efficacia era legata ad estrema razionalità e sensatezza. Il rapporto personale con “quel cliente” dava al cliente stesso una sensazione d’importanza e di dignità.
Il cliente che oggi entra nel grande supermercato  viene colpito dalla grandezza dell’edificio, dal numero dei dipendenti e dalla quantità della merce esposta.  Egli è “un” cliente, non trova nessuno che si compiaccia della sua venuta, nessuno che si preoccupi dei suoi desideri. L’attenzione dell’azienda non è rivolta a quel cliente ma al prototipo che egli può rappresentare al fine di stimolare le vendite con precise azioni di marketing. Mentre il salumiere usava argomentazioni razionali e concrete, il supermercato punta sul fattore emozionale attraverso una suggestione quasi ipnotica, basata su immagini e frasi ripetute, che in larga parte possono non avere alcuna relazione con la qualità della merce. Tutto viene utilizzato e indirizzato in funzione di far nascere al cliente un bisogno che al momento egli non sente, o quantomeno, non è pressante tanto da indurlo all’acquisto. La maggior parte delle persone sono convinte che se vogliono qualcosa, sono loro a volerle. Questa è spesso una illusione, un gran numero delle decisioni che prendiamo non sono nostre. Ci vengono suggerite dall’esterno indebolendo le facoltà critiche agendo sulla  nostra emotività, e non percepiamo che ci siamo soltanto uniformati alle aspettative di altri.
C’era una volta un dipendente che lasciata la sua terra d’origine o la sua attività agricola entrava nella fabbrica come impiegato o come operaio. Affrontava un cambiamento radicale per la propria vita per avere la possibilità di viverla dignitosamente vendendo il proprio lavoro. Enormi erano le difficoltà a cui andava incontro, soprattutto di carattere ambientale. Il freddo, la nebbia e la catena di montaggio erano esperienze che richiedevano un enorme sforzo di adattamento. Terribili, al primo impatto, erano i tempi e gli schemi prefissati dell’attività di fabbrica, come alienante era quella inusuale ripetitiva attività lavorativa. Pur tuttavia si assicurava un primo proprio benessere economico che gli permetteva di pianificare un futuro forte della certezza del suo reddito. Il  rapporto con il “padrone” era quello di un padre severo al quale ci si rivolgeva o direttamente o tramite il sindacato. Era un  contesto di lotta, ma anche  di sviluppo. Nasceva e diventava sempre più forte un senso di appartenenza che annullava l’originaria solitudine. La società non era solo un soggetto giuridico, ma una collettività in cui il dipendente si sentiva parte viva ed integrata. Il “padrone” amava la sua azienda, essa era lo scopo di una vita ed in essa riversava il profitto della sua attività.
Oggi questa collettività si è sfaldata. La sempre maggiore automazione dei processi produttivi e la globalizzazione dei mercati hanno stravolto in brevissimo tempo il precedente contesto. Ora il campo di gioco si è dilatato in maniera esponenziale tanto da comprendere il mondo intero. Le strutture produttive devono adeguarsi nelle dimensioni proprie e ramificazioni territoriali, per essere in grado di sostenere enormi investimenti nello  sviluppo dei prodotti, ricercare “economie di scala”  con frequenti ristrutturazioni organizzative e una localizzazione in funzione dei minori costi del lavoro, del fisco e di quant’altro possa assicurare loro competitività economica ed incremento degli utili. In questo mutato campo di gioco dominano le grandi multinazionali. Esse progressivamente fagocitano le entità minori, non sempre per comprenderle, spesso per espellerle. Il fattore umano, e per fattore umano comprendiamo sia il dipendente sia il vecchio datore di lavoro,  che formava la collettività forza dell’impresa preesistente, è stato annichilito da “entità” che hanno sede in lontani paradisi fiscali, i cui vertici sono personaggi anonimi e la direzione è un potere potente ma invisibile. Una costrizione  enorme che viene esercitata da poche persone dalle cui decisioni dipende il destino di gran parte della società. Per il dipendente, se prima la disoccupazione era un pericolo ipotetico, ora se non si sta già vivendo, se ne sente la terribile prefigurazione.
Il nemico non è più il vecchio datore di lavoro, ma il collega al quale contendere lo spazio lasciato dalla ristrutturazione. Se il lavoratore non possiede le nuove competenze sarà espulso dal processo lavorativo. E’ il mercato che determina il valore delle qualità umane, e se un soggetto non ha proprio quelle, è come se non ne avesse alcuna, come una merce invendibile non ha valore, pur potendo avere una sua utilità. Si combatte una “guerra” generazionale,  i giovani chiedono spazio a coloro che, per quanto  anagraficamente non lo siano ancora,  per i nuovi processi lavorativi sono già vecchi. La famiglia, tradizionale porto d’approdo, dove solitamente l’individuo trovava sicurezza, ha rotto gli antichi equilibri vittima della bufera sociale di cui è cellula fondamentale.  Alla stessa stregua cadono  le ideologie, l’orgoglio di classe e lo spirito di appartenenza ad un gruppo.  Si cerca allora un’ancora di salvataggio nel mito dell’individualismo perseguendo prestigio, potere, popolarità, e la facile ricchezza scaturita da una improbabile fortuna nei giochi, alla ricerca di quell’autostima che solo gli altri possono dare purché si riesca ad “apparire”.

Se questo non è un paese per vecchi non è tutta colpa di Freud.

                                                                              Mario Ruggieri

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