C’era una volta una salumeria e la
persona che la gestiva aveva molte nozioni e molte qualità. Poteva scegliere
tra tanti commercianti all’ingrosso da cui rifornirsi in base ai prezzi e alle
caratteristiche che riteneva migliori. Aveva la sua nutrita schiera di clienti
dei quali aveva imparato a conoscere le esigenze, i gusti e le abitudini.
Il cliente che oggi entra nel
grande supermercato viene colpito dalla
grandezza dell’edificio, dal numero dei dipendenti e dalla quantità della merce
esposta. Egli è “un” cliente, non trova
nessuno che si compiaccia della sua venuta, nessuno che si preoccupi dei suoi
desideri. L’attenzione dell’azienda non è rivolta a quel cliente ma al
prototipo che egli può rappresentare al fine di stimolare le vendite con
precise azioni di marketing. Mentre il salumiere usava argomentazioni razionali
e concrete, il supermercato punta sul fattore emozionale attraverso una
suggestione quasi ipnotica, basata su immagini e frasi ripetute, che in larga
parte possono non avere alcuna relazione con la qualità della merce. Tutto
viene utilizzato e indirizzato in funzione di far nascere al cliente un bisogno
che al momento egli non sente, o quantomeno, non è pressante tanto da indurlo
all’acquisto. La maggior parte delle persone sono convinte che se vogliono
qualcosa, sono loro a volerle. Questa è spesso una illusione, un gran numero
delle decisioni che prendiamo non sono nostre. Ci vengono suggerite
dall’esterno indebolendo le facoltà critiche agendo sulla nostra emotività, e non percepiamo che ci
siamo soltanto uniformati alle aspettative di altri.
C’era una volta un dipendente che
lasciata la sua terra d’origine o la sua attività agricola entrava nella
fabbrica come impiegato o come operaio. Affrontava un cambiamento radicale per
la propria vita per avere la possibilità di viverla dignitosamente vendendo il
proprio lavoro. Enormi erano le difficoltà a cui andava incontro, soprattutto
di carattere ambientale. Il freddo, la nebbia e la catena di montaggio erano
esperienze che richiedevano un enorme sforzo di adattamento. Terribili, al
primo impatto, erano i tempi e gli schemi prefissati dell’attività di fabbrica,
come alienante era quella inusuale ripetitiva attività lavorativa. Pur tuttavia
si assicurava un primo proprio benessere economico che gli permetteva di
pianificare un futuro forte della certezza del suo reddito. Il rapporto con il “padrone” era quello di un
padre severo al quale ci si rivolgeva o direttamente o tramite il sindacato.
Era un contesto di lotta, ma anche di sviluppo. Nasceva e diventava sempre più
forte un senso di appartenenza che annullava l’originaria solitudine. La
società non era solo un soggetto giuridico, ma una collettività in cui il
dipendente si sentiva parte viva ed integrata. Il “padrone” amava la sua
azienda, essa era lo scopo di una vita ed in essa riversava il profitto della
sua attività.
Oggi questa collettività si è
sfaldata. La sempre maggiore automazione dei processi produttivi e la
globalizzazione dei mercati hanno stravolto in brevissimo tempo il precedente
contesto. Ora il campo di gioco si è dilatato in maniera esponenziale tanto da
comprendere il mondo intero. Le strutture produttive devono adeguarsi nelle
dimensioni proprie e ramificazioni territoriali, per essere in grado di
sostenere enormi investimenti nello
sviluppo dei prodotti, ricercare “economie di scala” con frequenti ristrutturazioni organizzative
e una localizzazione in funzione dei minori costi del lavoro, del fisco e di
quant’altro possa assicurare loro competitività economica ed incremento degli
utili. In questo mutato campo di gioco dominano le grandi multinazionali. Esse
progressivamente fagocitano le entità minori, non sempre per comprenderle,
spesso per espellerle. Il fattore umano, e per fattore umano comprendiamo sia
il dipendente sia il vecchio datore di lavoro,
che formava la collettività forza dell’impresa preesistente, è stato
annichilito da “entità” che hanno sede in lontani paradisi fiscali, i cui
vertici sono personaggi anonimi e la direzione è un potere potente ma
invisibile. Una costrizione enorme che
viene esercitata da poche persone dalle cui decisioni dipende il destino di
gran parte della società. Per il dipendente, se prima la disoccupazione era un
pericolo ipotetico, ora se non si sta già vivendo, se ne sente la terribile
prefigurazione.
Il nemico non è più il vecchio
datore di lavoro, ma il collega al quale contendere lo spazio lasciato dalla
ristrutturazione. Se il lavoratore non possiede le nuove competenze sarà
espulso dal processo lavorativo. E’ il mercato che determina il valore delle
qualità umane, e se un soggetto non ha proprio quelle, è come se non ne avesse
alcuna, come una merce invendibile non ha valore, pur potendo avere una sua
utilità. Si combatte una “guerra” generazionale, i giovani chiedono spazio a coloro che, per
quanto anagraficamente non lo siano
ancora, per i nuovi processi lavorativi
sono già vecchi. La famiglia, tradizionale porto d’approdo, dove solitamente
l’individuo trovava sicurezza, ha rotto gli antichi equilibri vittima della
bufera sociale di cui è cellula fondamentale.
Alla stessa stregua cadono le
ideologie, l’orgoglio di classe e lo spirito di appartenenza ad un gruppo. Si cerca allora un’ancora di salvataggio nel
mito dell’individualismo perseguendo prestigio, potere, popolarità, e la facile
ricchezza scaturita da una improbabile fortuna nei giochi, alla ricerca di
quell’autostima che solo gli altri possono dare purché si riesca ad “apparire”.
Se questo non è un paese per
vecchi non è tutta colpa di Freud.
Mario
Ruggieri
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