Nelle mie vacanze calabresi, in una libreria di Acri (CS) ho
scelto la lettura de “I Vangeli della domenica”, di Sergio Quinzio,
l'apprezzatissimo teologo piemontese scomparso nel 1996. L'originalità
brillante e soprattutto libera delle sue riflessioni concorse a preparargli
rapporti burrascosi con i gesuiti di “Civiltà cattolica” che nel 1992
stroncarono il suo “La sconfitta di Dio”. L'istituzione ecclesiastica non
voleva rinunciare all'idea che la salvezza sia stata già conseguita dal Cristo
venuto a riscattarci dal peccato con il suo sacrificio estremo, mentre Quinzio
si ostinava a ripetere che l'umanità si era limitata a vederlo morire
perpetuando le grandi ingiustizie che gridano vendetta al cospetto di Dio.
In queste folgoranti e non autorizzate omelie domenicali,
Quinzio non rinuncia a spiegare, a chiarire, ad argomentare o a confrontare, ma
sembra quasi divertirsi giocando a rimpiattino con il nostro troppo passivo e
docile ascolto del Vangelo. Non conclude mai con una risposta rassicurante, ma
lascia che domande lancinanti si sprigionino. Solo apparentemente esse hanno
l'obiettivo di corrodere e sfidare il dogma – e ciò deve aver inquietato gli
ambienti di “Civiltà cattolica” - ma essenzialmente puntano a scuotere la serenità
dei credenti nei loro tranquilli percorsi.
Ma insomma. Dopo Duemila anni l'umanità non continua a
preferire le tenebre alla luce come
profetizzava l'evangelista Giovanni nell'Apocalisse e come confermava
Leopardi nel distico posto in epigrafe alla sua “Ginestra”? I cristiani non
hanno forse rimosso dal loro orizzonte la speranza? Non si comportano come
rassegnati ad un mondo in cui le ingiustizie sono insormontabili o addirittura
sono accettate come naturali? Non guardano il dilagare dell'odio come se in
eterno il carnefice fosse destinato ad aver sempre la meglio sulle sue vittime?
Ma insomma. Duemila anni sono molti più dei 40 anni di
peregrinazione nel deserto inflitti al popolo di Israele per aver dubitato e
tradito il patto di alleanza con Dio: la manna del benessere, della tecnologia
e della modernità è arrivata per nutrire alcuni, ma il deserto di globale
infelicità non risparmia nessuno e non accenna ad arretrare. Anzi, si estende
ed imperversa. I malati muoiono, i morti non risorgono, gli zoppi non saltano
come gazzelle, gli oppressi perdono inesorabilmente. E' lecito domandarsi se il
Signore è ancora in mezzo a noi o l'interrogativo va ricacciato indietro come
blasfemo?
Nel suo viaggio drammatico, Sergio Quinzio non lascia la fede
e neppure smette di sperare. Sembra però dirci che la speranza non comporta
attesa passiva, ma presuppone il nutrimento di una costruzione laboriosa perchè
– siamo alle solite – è il Messia che aspetta noi e non il contrario.
Mario Dellacqua
SERGIO QUINZIO, I
Vangeli della domenica, Adelphi, 1998, p.166.
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