45 anni sono il meglio della vita. Perciò dobbiamo essere grati a chi, investendola interamente nella sua missione religiosa, ha incrociato la nostra educazione e accompagnato gli appuntamenti decisivi della nostra formazione umana e morale, del nostro percorso famigliare, scolastico o lavorativo.
Don Luigi era un’originale interpretazione di quel mistero di generosità e solitudine che segna le giornate di ogni prete. Finto burbero, sotto la scorza di un’apparente ritrosia, don Luigi nascondeva una vitalità sempre pronta ad esplodere in variopinti comportamenti di allegria contagiosa e imprevedibile.
Avevo 18 anni e gli dissi che stavo maturando una scelta decisiva. Sapevo che non l’avrebbe approvata. Mi rispose che era giusto. Dovevo sentirmi libero di andare dove volevo. Così feci e oggi parlo di lui con incerta prudenza, perché so che il mio punto di vista è molto parziale.
L’ambiente parrocchiale in quel mezzo secolo era fervido di laboriose opere: l’educazione dei giovani, l’accoglienza degli immigrati, l’assistenza ai poveri, agli anziani e ai malati, la cura per la liturgia. Per il resto, rimase sempre discretamente provinciale, cioè impermeabile ai fermenti innovativi che scuotevano il mondo cattolico e tutta l’Italia di quei decenni operosi.
Fuori gioco comunisti e socialisti a causa delle raccomandazioni all’incontrario che li tenevano lontani dai posti di lavoro sicuri (in Fiat o altrove), cattolici e liberali dominavano la scena. Pur in perenne competizione, erano però d’accordissimo nel trasmetterci l’educazione fascista che avevano ricevuto e ben assimilato. Qui la consegna era ferrea: “poche parole e molti fatti”. Dietro a questo motto (non a caso candidamente affiorato nella commemorazione elogiativa di taluno), emergeva un imperativo del regime che ebbe molto successo anche nelle generazioni successive: “qui non si fa politica, qui si lavora”.
La dittatura di questo principio fu (è?) incontrastata e accettata come arrivata dal buon senso e bevuta come l’acqua che sgorga da una sorgente naturale. Per carità, il successo di quel detto ha molte buone ragioni (anche “largo ai giovani” era uno slogan fascista: come dargli torto?). Ma, spinta alle sue estreme conseguenze, quella massima produrrebbe il rogo dei libri, la chiusura delle scuole, il licenziamento dei giornalisti. Anche se non furono così devastanti, gli effetti furono i seguenti: Mazzolari e “Adesso” sconosciuti, don Milani ignorato e bocciato, il Concilio interpretato come traduzione della messa dal latino all’italiano, Giulio Pastore neanche bazzicato, Padre Pellegrino e la sua “Camminare insieme” guardati con sospetto. Movimento sindacale, peggio che andar di notte.
Chi voleva partecipare ai sommovimenti culturali e sociali che stavano trasformando l’Italia, doveva andare a cantare in un altro cortile. Poteva salire sul treno per Torino o per Pinerolo dove, al Vandalino, alla Cisl o a San Lazzaro, si correva il rischio di sentir nominare Emmanuel Mounier e Jacques Maritain o addirittura di sentir parlare Josè Maria Gonzalez Ruiz, Carlo Borra, Tonino Chiriotti.
Sarebbe stato più fecondo un collateralismo pacifico e aperto con la Democrazia Cristiana. Ma il principio costituzionale che riconosce ai cittadini il diritto di “associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la vita nazionale” dalle nostre parti trovava e trova ancora vita dura. Allora, i rapporti con l’intero mondo politico erano (sono?) demonizzati, come merita lo scansafatiche che vuole una carriera di vantaggi gratuiti. Oppure erano (sono?) derisi, come merita chi, presumendosi troppo in gamba, insegue la propria cooptazione in un’élite. Così i rapporti furono (sono?) clandestini, sommersi e limitati alla scelta dei candidati per le elezioni amministrative. Il partito era (è?) tenuto in vita vegetalmente in attesa di essere usato come macchinetta elettorale al momento opportuno: quello dei fatti (la raccolta dei voti), e non delle parole (il pensiero).
Non so quanto i miei amici di allora condividano questa ricostruzione. Oggi, mutatis mutandis, sono tentato di concludere che niente di essenziale è cambiato su questo versante. Non so quanto don Luigi vedesse, accettasse o contrastasse questa deriva. Forse è vero, come ha detto il vicario del Vescovo, che un pastore plasma la sua comunità, ma ne è anche plasmato. E’ meno accettabile, secondo me, che la comunità cattolica non veda.
Mario Dellacqua
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