Un mio caro amico che si ostina a
fingere di non essere anche un mio maestro,
mi ha offerto la sua interpretazione del voto al referendum del 17
aprile. Di questi tempi la condizione di precarietà e di disoccupazione è
persistente e sempre più diffusa in tutte le famiglie. E' incisiva. Concorre a
formare il pensiero dei lavoratori e orienta il comportamento delle aree
sociali subalterne. La ricattabilità della vita quotidiana aumenta e toglie il
diritto di parola e di dissenso. In questa miscela può resistere solo chi ci
crede o chi se lo può permettere. Una minoranza di persone è portata a cercare
una visione di insieme dei problemi. La maggioranza, invece, è spinta a
muoversi e a ribellarsi solo se vengono colpiti direttamente i pilastri
materiali delle poche sicurezze rimaste.
Ne nascono due conseguenze: bisogna
apprezzare, coltivare e sollecitare all'azione chi già è andato a votare.
Bisogna non spezzare, ma mantenere aperto il dialogo con chi non è andato a
votare per una varietà contraddittoria di motivi: indifferenza, scoraggiamento,
adesione alla politica governativa, disgusto per gli scandali, rassegnazione o
estraneità e impotenza.
E' evidente che nessun dialogo è
possibile se si comincia dicendo che gli italiani sono uno schifo e che gli
altri sono manipolati, disinformati, interessati, opportunisti, ignoranti o
vili. Questo genere di persone si trova un po' di qua e un po' di là.
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