Nella foto di Tommaso Rifugio luci e ombre a None |
A che serve discutere di mafia a None? Serve a organizzare
il 3 marzo una serata sull'usura con le preparatissime ragazze di “Libera”.
Serve per sottolineare che anche in Piemonte le organizzazioni malavitose hanno
messo le mani sugli affari e nei Comuni. Serve a inserire nei piani della
cosiddetta offerta formativa alle Scuole Medie una gita a Torino ove gli
insegnanti promuovono la partecipazione parastatale a una protesta giovanile.
Serve a offrire al Sindaco l'opportunità di leggere dal palco i nomi delle
vittime della mafia: il suo vice lo filma e pubblica il tutto su facebook.
Male non fa.
Però la domanda rimane in sospeso: che vuol dire combattere
la mafia a None? Se diamo retta alla definizione di Leonardo Sciascia, “la
mafia è un'associazione per delinquere, coi fini di illecito arricchimento per
i propri associati, che si impone come intermediazione parassitaria, e imposta
con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il
consumo, tra il cittadino e lo Stato". Non è il caso di None. Non
scherziamo. None è estranea al fenomeno. Non mancano privilegi, ma manca il
requisito dell'associazione. E, specialmente, tra lavoro e proprietà, tra
cittadino e istituzioni, tra produzione e consumo non vi è traccia di violenza
esercitata su persone o cose. Il che non esclude la persistenza e anche
l'aggravamento di forme di ingiustizia sociale. Esse prosperano senza bisogno
di violare la legalità. In questi tempi, ad esempio, troppi cittadini sono
poveri o si sono così impoveriti da sentirsi costretti a dipendere da qualcun
altro e a vendersi per lavorare. Altri cittadini, per contro, sono abbastanza
ricchi da permettersi il lusso di comprare a basso prezzo il lavoro di altri.
Possono scegliere a piacimento in cambio di forme più o meno dignitose di
fedeltà e asservimento personale.
Ma come mai di
fronte ad ogni ingiustizia, inefficienza, ritardo o discriminazione si sente
parlare di mafia? Anche noi, nella nostra passata esperienza di amministratori
comunali, non solo a causa delle nostre intemperanze giovanili, abbiamo usato
drammatizzare la dialettica politica ricorrendo a semplificazioni e
generalizzazioni che oggi non esitiamo a definire inaccettabili. La vis polemica rendeva allora – e
rende oggi - troppo forte la tentazione di fare di ogni erba un fascio, di
mettere tutti nello stesso sacco da buttare: i politici sono corrotti, i preti
sono pedofili, la pubblica amministrazione è un covo di fannulloni, i
commercianti sono ladri, i napoletani sono camorristi, i musulmani sono
terroristi, i sindacalisti sono venduti, i leghisti sono razzisti, gli
imprenditori sono sfruttatori, gli atleti sono dopati.
Lo smarrimento
della capacità di distinguere è fondamentale per diventare come ci vogliono i
progettisti dell'imbarbarimento della vita civile e della guerra domestica di
tutti contro tutti. Fare una caricatura delle posizioni dell'avversario per
metterlo in cattiva luce: ciò serve a rimuovere e non a contrapporre alle sue
ragioni e ai suoi interessi altre ragioni più convincenti e altri interessi più
rappresentativi. Si spera che ciò serva a demolirlo una volta per tutte. Di
fronte al conflitto si perseguono solo soluzioni che contemplano l'eliminazione
dell'avversario.
Azzardiamo
un'ipotesi: confezionare a domicilio una mafia, una cupola, un complotto di
fronte ad ogni ingiustizia che si consuma giustifica a posteriori la scelta di
mancare l'atto doveroso. Aiuta a rimuovere la necessità del piccolo impegno
associativo che richiede rispetto degli altri, tempo, tolleranza, fatica,
disponibilità a esporsi, a metterci la faccia. E' un tranquillante a
circolazione gratuita. Protegge il quieto vivere al quale non vuoi rinunciare.
A costo di vivere in una società che al bar descrivi come dominata dalla mafia.
Dove diventa un dogma sapersi fare solo i fatti propri, il bene comune
fatalmente deperisce.
Dall'angolo di via Roma 11 Mario Dellacqua e
Armando Nicola
COMUNICATO N. 74, 30 marzo 2016
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