venerdì 1 aprile 2016

MA A NONE LA MAFIA NON C'E'

Nella foto di Tommaso Rifugio luci e ombre a None
A che serve discutere di mafia a None? Serve a organizzare il 3 marzo una serata sull'usura con le preparatissime ragazze di “Libera”. Serve per sottolineare che anche in Piemonte le organizzazioni malavitose hanno messo le mani sugli affari e nei Comuni. Serve a inserire nei piani della cosiddetta offerta formativa alle Scuole Medie una gita a Torino ove gli insegnanti promuovono la partecipazione parastatale a una protesta giovanile. Serve a offrire al Sindaco l'opportunità di leggere dal palco i nomi delle vittime della mafia: il suo vice lo filma e pubblica il tutto su facebook. Male non fa.
Però la domanda rimane in sospeso: che vuol dire combattere la mafia a None? Se diamo retta alla definizione di Leonardo Sciascia, “la mafia è un'associazione per delinquere, coi fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si impone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato". Non è il caso di None. Non scherziamo. None è estranea al fenomeno. Non mancano privilegi, ma manca il requisito dell'associazione. E, specialmente, tra lavoro e proprietà, tra cittadino e istituzioni, tra produzione e consumo non vi è traccia di violenza esercitata su persone o cose. Il che non esclude la persistenza e anche l'aggravamento di forme di ingiustizia sociale. Esse prosperano senza bisogno di violare la legalità. In questi tempi, ad esempio, troppi cittadini sono poveri o si sono così impoveriti da sentirsi costretti a dipendere da qualcun altro e a vendersi per lavorare. Altri cittadini, per contro, sono abbastanza ricchi da permettersi il lusso di comprare a basso prezzo il lavoro di altri. Possono scegliere a piacimento in cambio di forme più o meno dignitose di fedeltà e asservimento personale.
Ma come mai di fronte ad ogni ingiustizia, inefficienza, ritardo o discriminazione si sente parlare di mafia? Anche noi, nella nostra passata esperienza di amministratori comunali, non solo a causa delle nostre intemperanze giovanili, abbiamo usato drammatizzare la dialettica politica ricorrendo a semplificazioni e generalizzazioni che oggi non esitiamo a definire inaccettabili. La vis polemica rendeva allora – e rende oggi - troppo forte la tentazione di fare di ogni erba un fascio, di mettere tutti nello stesso sacco da buttare: i politici sono corrotti, i preti sono pedofili, la pubblica amministrazione è un covo di fannulloni, i commercianti sono ladri, i napoletani sono camorristi, i musulmani sono terroristi, i sindacalisti sono venduti, i leghisti sono razzisti, gli imprenditori sono sfruttatori, gli atleti sono dopati.
Lo smarrimento della capacità di distinguere è fondamentale per diventare come ci vogliono i progettisti dell'imbarbarimento della vita civile e della guerra domestica di tutti contro tutti. Fare una caricatura delle posizioni dell'avversario per metterlo in cattiva luce: ciò serve a rimuovere e non a contrapporre alle sue ragioni e ai suoi interessi altre ragioni più convincenti e altri interessi più rappresentativi. Si spera che ciò serva a demolirlo una volta per tutte. Di fronte al conflitto si perseguono solo soluzioni che contemplano l'eliminazione dell'avversario.
Azzardiamo un'ipotesi: confezionare a domicilio una mafia, una cupola, un complotto di fronte ad ogni ingiustizia che si consuma giustifica a posteriori la scelta di mancare l'atto doveroso. Aiuta a rimuovere la necessità del piccolo impegno associativo che richiede rispetto degli altri, tempo, tolleranza, fatica, disponibilità a esporsi, a metterci la faccia. E' un tranquillante a circolazione gratuita. Protegge il quieto vivere al quale non vuoi rinunciare. A costo di vivere in una società che al bar descrivi come dominata dalla mafia. Dove diventa un dogma sapersi fare solo i fatti propri, il bene comune fatalmente deperisce.

Dall'angolo di via Roma 11 Mario Dellacqua e Armando Nicola
COMUNICATO N. 74, 30 marzo 2016

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