Scorrevano
le immagini delle interviste a Graziano Delrio e a Pierluigi Bersani
su La7, quando è arrivato Andrea con la notizia che una famiglia
marocchina, assegnataria di un alloggio popolare nel quartiere San
Basilio di Roma, è stata accolta al grido di “Non
vogliamo negri” e
“Tornatevene
a casa con il gommone”.
La famiglia marocchina aveva tutto il diritto di pretendere il
rispetto della legalità e gli occupanti abusivi erano stati
sgomberati. Ma, la “lotta”
del vicinato è riuscita a prevalere sulla legge: la famiglia
marocchina ha rinunciato a farla rispettare. Se n'è andata
piangendo.
Dimostrazione di come nell'Italia dei nostri giorni, “la
lotta paga”,
soprattutto se sostenuta da “destra”
e non più da “sinistra”
come
capitava ai tempi in cui i mulini erano bianchi e gli operai erano
rossi.
Ora
che sinistra e sindacati non sono più organizzatori di
partecipazione e di lotte sociali, mezzogiorno abbandonato, giovani
pagati con milioni di voucher dal tabaccaio, ceto medio impoverito,
operai sguarniti di tutele e consegnati alla precarietà hanno preso
la prima occasione che capitava per dire che “sono
stufi” (lo
ha notato Bersani a La7). Un bel dire che hanno vinto i populisti,
gli specialisti esclusivi nella distruzione di governi, gli incapaci
di alternativa (per Michele Serra a “una
buona metà degli elettori del No”
non importa nulla della Costituzione), i disinformati, gli
irresponsabili, i conservatori, i professionisti delle scissioni.
Questo
referendum è partito costituzionale, ma il Presidente del Consiglio
ha dirottato l'attenzione sulle sorti del suo governo e ha messo in
ombra il quesito su cui si votava. Si è poi trasformato in un
referendum sociale e ha completato la sua metamorfosi finendo per
diventare un grimaldello politico. Grandi porzioni dei ceti
subalterni hanno adoperato la scheda come una clava e l'hanno
scagliata contro il governo esprimendo malcontento, insoddisfazione,
protesta e rabbia che partiva dalla loro peggiorata condizione
sociale e dalla loro crescente condizione di insicurezza.
Nulla
di più sciocco, dunque, da una parte e dall'altra, che leggere il
risultato come una vittoria o una sconfitta della pancia o della
testa. Da troppo tempo le disuguaglianze e la precarietà del lavoro
interrogano governi e forze politiche: se non arrivano risposte,
prima o poi la pentola esplode e fa saltare il coperchio. Il mancato
ascolto e la mancata rappresentatività di queste domande è e sarà
la radice vera dell'instabilità e della ingovernabilità.
Tra
chi ha votato badando ai contenuti della riforma, le superfici di
contatto sono negate per paura di essere scambiati per alleati
servili e sciocchi dei poteri forti, di Salvini, delle
multinazionali, di Casa Pound, delle banche o di Berlusconi (a
seconda di chi parla).
Chi
ha votato No, sapeva benissimo che la riforma non voleva preparare
una dittatura, ma una velocizzazione del processo decisionale
lungamente invocata e mai concretizzata.
Chi
ha votato sì, conosceva i punti deboli della riforma (a partire
dalla nomina regionale dei senatori) e sapeva benissimo che
l'accoppiamento tra riforma e Italicum non poteva sradicare
corruzione e disoccupazione solo perchè consegnava alla maggiore
minoranza la libertà di governare dal ricatto dei piccoli partiti.
Ora
occorre un governo di transizione con l'obiettivo di rifare una nuova
legge elettorale (il più ampiamente condivisa possibile) e poi
andare al voto. Ora, subito, con qualsiasi sistema elettorale, non
porterebbe ad un finto indurimento dello scontro: sarebbe in realtà
un gioco al rinvio permanente.
Il
grande tema rimane quello della lotta contro le istituzioni
multinazionali della finanza e contro le disuguaglianze per una
maggiore giustizia distributiva della ricchezza, per un piano del
lavoro e per una riconversione ecologica dell'economia. Non sarà il
mantenimento dell'attuale carta costituzionale a impedire la
realizzazione di un programma di governo così necessario e
ambizioso.
Occorre
non uno scaldarsi delle opposte tifoserie, ma un programma
partecipato, un forte movimento di riscossa della società civile e
una grande riappropriazione della politica intesa come cittadinanza
attiva e consapevole. Se continua invece lo scambio velenoso (e
provinciale) di accuse per condannare chi ha avuto la più
squalificata e infamante delle compagnie, si finisce col dilapidare
il grande patrimonio di speranza e di partecipazione che si è
espresso non solo in Italia con l'eccezionale affluenza alle urne, ma
anche in Austria con il voto che ha segnato la prevalenza democratica
sull'avanzata della xenofobia.
Come
scrive il filosofo Maurizio Ferraris,
“poi ci sono quelli che si credono più furbi degli altri, e sono
degli imbecilli....Soprattutto, per imbecilli che siano gli altri,
siamo sicuri che non siano comunque meglio di noi?”.
Resoconto
e riflessioni dopo l'incontro “non
organizzato” all'angolo
di via Roma 11 tra Paolo Cremi Lai, Mario Dellacqua, Andrea Testa e
Mario Vruna. Sarebbe bello allargare il dibattito a più voci
diverse. Roberto Cerchio ha inviato al Manifesto un contributo
sull'argomento referendum.
Vedi
A. PORTELLI, Ripartire
da ciò che unisce le persone civili,
“Il manifesto”, 7 dicembre 2016, p.1; M. VALBRUZZI-D. FRUNCILLO,
Ripartire
dalle periferie,
“Il manifesto”, 6 dicembre 2016, p. 3; The Economist, Una
riforma da bocciare,
“Internazionale”, 2 dicembre 2016, p. 49; F. ANFOSSI, Referendum
Domande e risposte,
“Famiglia cristiana”, 4 dicembre 2016, p.27. M. FERRARIS,
L'imbecillità
è una cosa seria,
il Mulino, pp. 129, euro 12. M. SERRA, L'amaca,
“La Repubblica”, 6 dicembre 2016.
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