giovedì 8 dicembre 2016

PANCIA O TESTA? QUATTRO GATTI SUL REFERENDUM

Scorrevano le immagini delle interviste a Graziano Delrio e a Pierluigi Bersani su La7, quando è arrivato Andrea con la notizia che una famiglia marocchina, assegnataria di un alloggio popolare nel quartiere San Basilio di Roma, è stata accolta al grido di “Non vogliamo negri” e “Tornatevene a casa con il gommone”. La famiglia marocchina aveva tutto il diritto di pretendere il rispetto della legalità e gli occupanti abusivi erano stati sgomberati. Ma, la “lotta” del vicinato è riuscita a prevalere sulla legge: la famiglia marocchina ha rinunciato a farla rispettare. Se n'è andata piangendo.
Dimostrazione di come nell'Italia dei nostri giorni, “la lotta paga”, soprattutto se sostenuta da “destra” e non più da “sinistra” come capitava ai tempi in cui i mulini erano bianchi e gli operai erano rossi.
Ora che sinistra e sindacati non sono più organizzatori di partecipazione e di lotte sociali, mezzogiorno abbandonato, giovani pagati con milioni di voucher dal tabaccaio, ceto medio impoverito, operai sguarniti di tutele e consegnati alla precarietà hanno preso la prima occasione che capitava per dire che “sono stufi” (lo ha notato Bersani a La7). Un bel dire che hanno vinto i populisti, gli specialisti esclusivi nella distruzione di governi, gli incapaci di alternativa (per Michele Serra a “una buona metà degli elettori del No” non importa nulla della Costituzione), i disinformati, gli irresponsabili, i conservatori, i professionisti delle scissioni.
Questo referendum è partito costituzionale, ma il Presidente del Consiglio ha dirottato l'attenzione sulle sorti del suo governo e ha messo in ombra il quesito su cui si votava. Si è poi trasformato in un referendum sociale e ha completato la sua metamorfosi finendo per diventare un grimaldello politico. Grandi porzioni dei ceti subalterni hanno adoperato la scheda come una clava e l'hanno scagliata contro il governo esprimendo malcontento, insoddisfazione, protesta e rabbia che partiva dalla loro peggiorata condizione sociale e dalla loro crescente condizione di insicurezza.
Nulla di più sciocco, dunque, da una parte e dall'altra, che leggere il risultato come una vittoria o una sconfitta della pancia o della testa. Da troppo tempo le disuguaglianze e la precarietà del lavoro interrogano governi e forze politiche: se non arrivano risposte, prima o poi la pentola esplode e fa saltare il coperchio. Il mancato ascolto e la mancata rappresentatività di queste domande è e sarà la radice vera dell'instabilità e della ingovernabilità.
Tra chi ha votato badando ai contenuti della riforma, le superfici di contatto sono negate per paura di essere scambiati per alleati servili e sciocchi dei poteri forti, di Salvini, delle multinazionali, di Casa Pound, delle banche o di Berlusconi (a seconda di chi parla).
Chi ha votato No, sapeva benissimo che la riforma non voleva preparare una dittatura, ma una velocizzazione del processo decisionale lungamente invocata e mai concretizzata.
Chi ha votato sì, conosceva i punti deboli della riforma (a partire dalla nomina regionale dei senatori) e sapeva benissimo che l'accoppiamento tra riforma e Italicum non poteva sradicare corruzione e disoccupazione solo perchè consegnava alla maggiore minoranza la libertà di governare dal ricatto dei piccoli partiti.
Ora occorre un governo di transizione con l'obiettivo di rifare una nuova legge elettorale (il più ampiamente condivisa possibile) e poi andare al voto. Ora, subito, con qualsiasi sistema elettorale, non porterebbe ad un finto indurimento dello scontro: sarebbe in realtà un gioco al rinvio permanente.
Il grande tema rimane quello della lotta contro le istituzioni multinazionali della finanza e contro le disuguaglianze per una maggiore giustizia distributiva della ricchezza, per un piano del lavoro e per una riconversione ecologica dell'economia. Non sarà il mantenimento dell'attuale carta costituzionale a impedire la realizzazione di un programma di governo così necessario e ambizioso.
Occorre non uno scaldarsi delle opposte tifoserie, ma un programma partecipato, un forte movimento di riscossa della società civile e una grande riappropriazione della politica intesa come cittadinanza attiva e consapevole. Se continua invece lo scambio velenoso (e provinciale) di accuse per condannare chi ha avuto la più squalificata e infamante delle compagnie, si finisce col dilapidare il grande patrimonio di speranza e di partecipazione che si è espresso non solo in Italia con l'eccezionale affluenza alle urne, ma anche in Austria con il voto che ha segnato la prevalenza democratica sull'avanzata della xenofobia.
Come scrive il filosofo Maurizio Ferraris, “poi ci sono quelli che si credono più furbi degli altri, e sono degli imbecilli....Soprattutto, per imbecilli che siano gli altri, siamo sicuri che non siano comunque meglio di noi?”.

Resoconto e riflessioni dopo l'incontro “non organizzato” all'angolo di via Roma 11 tra Paolo Cremi Lai, Mario Dellacqua, Andrea Testa e Mario Vruna. Sarebbe bello allargare il dibattito a più voci diverse. Roberto Cerchio ha inviato al Manifesto un contributo sull'argomento referendum.


Vedi A. PORTELLI, Ripartire da ciò che unisce le persone civili, “Il manifesto”, 7 dicembre 2016, p.1; M. VALBRUZZI-D. FRUNCILLO, Ripartire dalle periferie, “Il manifesto”, 6 dicembre 2016, p. 3; The Economist, Una riforma da bocciare, “Internazionale”, 2 dicembre 2016, p. 49; F. ANFOSSI, Referendum Domande e risposte, “Famiglia cristiana”, 4 dicembre 2016, p.27. M. FERRARIS, L'imbecillità è una cosa seria, il Mulino, pp. 129, euro 12. M. SERRA, L'amaca, “La Repubblica”, 6 dicembre 2016.

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