sabato 16 novembre 2013

UNA RIVOLUZIONE O UN LEADER


Durante un'accesa discussione con un amico, pronuncio una parola (rivoluzione) che non metto mai tra virgolette. O la uso sul serio o lascio perdere. Strano, ma il mio amico è d'accordo. Sa che non penso velleitariamente ad un capovolgimento politico conseguito dopo una catena di scontri metropolitani fra Stato e masse popolari armate e schierate come eserciti nelle piazze. Sa che penso ad una combinazione di istruzione popolare, di avanzate elettorali, di alleanze e di lotte sociali combattute sul terreno della legalità e della democrazia. La rivoluzione impossibile che vorremmo entrambi punta ad incidere in profondità nella produzione, nei redditi e nei consumi. Dunque nei comportamenti individuali quotidiani di milioni di persone.
Immagino un percorso lungo, combattuto e complicato che sale dal basso e non scende dall'alto e che può puntare alla conquista democratica della maggioranza dei consensi proprio perchè conosce il dovere di dire, scrivere e fare anche le cose sgradevoli. Ma questa rivoluzione è tuttora impossibile perchè largamente sprovvista dei consensi chiamati a sostenerla. Eppure è necessaria perchè rischiamo di essere sommersi dai rifiuti tossici o dai ghiacciai in scioglimento. Eppure dovrà essere nutrita dalla libertà se non vuole sfociare nel totalitarismo. Oh, che casino per i nostri nipoti, con tutta questa rivoluzione ancora da fare.

Al posto di questa ingrata fatica, il mio amico preferisce un passaggio autoritario. Lui vuole un leader, e non abbandona quella convinzione, nemmeno se gli dico che la delega ad un leader – qui la sparo grossa - è un approccio in definitiva squisitamente fascista. Lui non vuole una dittatura. Vuole un leader, perchè – obietta – le lungaggini estenuanti di una democrazia che decide sempre di non decidere impediscono o sterilizzano la radicalità indilazionabile dei provvedimenti da adottare.
Il mio amico non è comunista, ma finisce curiosamente per accettare – addirittura auspicare – gli approdi dittatoriali cui è pervenuto il comunismo nel giro di 70 anni in Unione Sovietica, in Cina, a Cuba e compagnia bella.
Non so come misure di redistribuzione della ricchezza e di riconversione ecologica dell'economia possano arrivare da un dittatore. Chiamalo leader, chiamalo come vuoi. Continuo a pensare che senza consenso democraticamente conquistato la più giusta, coraggiosa e radicale riforma non può durare. Perciò, respingo i luoghi comuni della moderazione, ma accetto di attraversare la gradualità dei processi. Perciò, trovo più saggio mettersi in cammino, invece di aspettare. La democrazia si sta svuotando da sola e forse non c'è bisogno di dittature nelle forme conosciute del Novecento. Ma se una dittatura verrà, bisognerà accoglierla come un mostro da combattere e da cacciare, non come una liberatoria novità nella quale riporre le nostre speranze. Condanniamo pure la protervia dei seduttori, ma quelli che si sono lasciati sedurre volentieri, davvero li assolviamo, poverini loro? No grazie. Già visto questo film.
Per esempio uno sciopero generale. Un altro amico mi obietta: sì, ma solo se lo fanno tutte le categorie e solo quando finalmente i sindacati si uniranno in un solo sindacato che “in definitiva ha il compito solo di difendere i lavoratori”. Obiezione per niente convincente, anzi finta. Siamo legati sempre al solito palo. La prolungata attesa dell'impossibile è il combustibile riposante della passività. E l'impossibile verrà dall'alto con i connotati dell'orribile. Forse, come nell'ultima pagina di Svevo, al posto dell'ora X, “ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà”.
Mario Dellacqua


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