Durante
un'accesa discussione con un amico, pronuncio una parola
(rivoluzione) che non metto mai tra virgolette. O la uso sul serio o
lascio perdere. Strano, ma il mio amico è d'accordo. Sa che non
penso velleitariamente ad un capovolgimento politico conseguito dopo
una catena di scontri metropolitani fra Stato e masse popolari armate
e schierate come eserciti nelle piazze. Sa che penso ad una
combinazione di istruzione popolare, di avanzate elettorali, di
alleanze e di lotte sociali combattute sul terreno della legalità e
della democrazia. La rivoluzione impossibile che vorremmo entrambi
punta ad incidere in profondità nella produzione, nei redditi e nei
consumi. Dunque nei comportamenti individuali quotidiani di milioni
di persone.
Immagino
un percorso lungo, combattuto e complicato che sale dal basso e non
scende dall'alto e che può puntare alla conquista democratica della
maggioranza dei consensi proprio perchè conosce il dovere di dire,
scrivere e fare anche le cose sgradevoli. Ma questa rivoluzione è
tuttora impossibile perchè largamente sprovvista dei consensi
chiamati a sostenerla. Eppure è necessaria perchè rischiamo di
essere sommersi dai rifiuti tossici o dai ghiacciai in scioglimento.
Eppure dovrà essere nutrita dalla libertà se non vuole sfociare nel
totalitarismo. Oh, che casino per i nostri nipoti, con tutta questa
rivoluzione ancora da fare.
Al posto
di questa ingrata fatica, il mio amico preferisce un passaggio
autoritario. Lui vuole un leader, e non abbandona quella convinzione,
nemmeno se gli dico che la delega ad un leader – qui la sparo
grossa - è un approccio in definitiva squisitamente fascista. Lui
non vuole una dittatura. Vuole un leader, perchè – obietta – le
lungaggini estenuanti di una democrazia che decide sempre di non
decidere impediscono o sterilizzano la radicalità indilazionabile
dei provvedimenti da adottare.
Il mio
amico non è comunista, ma finisce curiosamente per accettare –
addirittura auspicare – gli approdi dittatoriali cui è pervenuto
il comunismo nel giro di 70 anni in Unione Sovietica, in Cina, a Cuba
e compagnia bella.
Non so
come misure di redistribuzione della ricchezza e di riconversione
ecologica dell'economia possano arrivare da un dittatore. Chiamalo
leader, chiamalo come vuoi. Continuo a pensare che senza consenso
democraticamente conquistato la più giusta, coraggiosa e radicale
riforma non può durare. Perciò, respingo i luoghi comuni della
moderazione, ma accetto di attraversare la gradualità dei processi.
Perciò, trovo più saggio mettersi in cammino, invece di aspettare.
La democrazia si sta svuotando da sola e forse non c'è bisogno di
dittature nelle forme conosciute del Novecento. Ma se una dittatura
verrà, bisognerà accoglierla come un mostro da combattere e da
cacciare, non come una liberatoria novità nella quale riporre le
nostre speranze. Condanniamo pure la protervia dei seduttori, ma
quelli che si sono lasciati sedurre volentieri, davvero li
assolviamo, poverini loro? No grazie. Già visto questo film.
Per
esempio uno sciopero generale. Un altro amico mi obietta: sì, ma
solo se lo fanno tutte le categorie e solo quando finalmente i
sindacati si uniranno in un solo sindacato che “in definitiva ha
il compito solo di difendere i lavoratori”. Obiezione per
niente convincente, anzi finta. Siamo legati sempre al solito palo.
La prolungata attesa dell'impossibile è il combustibile riposante
della passività. E l'impossibile verrà dall'alto con i connotati
dell'orribile. Forse, come nell'ultima pagina di Svevo, al posto
dell'ora X, “ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà”.
Mario
Dellacqua
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