Mi
capitano tra i piedi, nel giro di pochi mesi, i morti di Lampedusa,
l'”Intellettuale
ad Auschwitz”
di Jean Améry e “La
Resistenza spiegata a mia figlia” di
Alberto Cavaglion, uno storico torinese non tanto allineato emigrato
all'Università di Firenze. Da Cavaglion a Thomas Mann e al suo
“Mario
e il mago” il
passo è breve quanto obbligato. I morti di Lampedusa non me li
potevo risparmiare, ma non me l'ha ordinato il medico di stabilire
un'ostinata connessione fra le sciagure del razzismo odierno, le
performance del dodicennio nazista e la genesi ingloriosa del nostro
ventennio mussoliniano.
Ce
n'è abbastanza per sprofondare in uno stato di acida depressione e
di sordo risentimento, specie quando operai meridionali vomitano su
zingari e stranieri le stesse crudeltà che, solo una cinquantina di
anni fa, si leggevano in Piemonte su cartelli ben decisi a non
affittare case a meridionali. Non saprei dire meglio di Franco
Arminio: “il
paese vuole che i suoi abitanti siano militanti dello scoraggiamento
col grembiule del rancore addosso”.
La memoria fa brutti scherzi. E' capacissima di
cancellare, ingigantire, ripetere e rimpicciolire quando c'è bisogno
di rimuovere, assolvere, magnificare o condannare a seconda delle
convenienze di chi è alla spietata ricerca di un capro espiatorio.
Ma
Améry, che ad Auschwitz ne ha viste di tutti i colori e ne ha
scritto solo nel 1966, non accetta consolazioni, giustificazioni,
conciliazioni. Non accetta che “il
tempo, come dice il buon senso, guarisca le ferite” e
parla di colpa collettiva solo come “somma,
divenuta oggettivamente manifesta, di comportamenti colpevoli
individuali” che
trasformano la colpa di ogni singolo tedesco nella “colpa
complessiva di un popolo”.
E il popolo tedesco ha una sola strada per uscirne: “assumersi
la responsabilità di quei dodici anni, al quale del resto non fu lui
a mettere fine”.
Non chiede vendette, espiazione o “purificazione
con mezzi violenti”, ma
la rivendicazione limpida che il “dominio
dell'infamia”
fu “concreta
negazione del mondo e di sè” in
quanto “patrimonio
negativo”
della sua storia nazionale e del suo ruolo in Europa e nel mondo.
Améry spiega che l'essenza del nazismo – per chi non
vede scongiurato il pericolo di una sua ricomparsa sotto accattivanti
e mentite spoglie – è l'annientamento dell'altro al quale si sente
superiore. In questo mondo, il nazista si sente straniero e annullare
l'altro è l'unica tecnica respiratoria che conosce. E' la sola via
per la realizzazione di sè. Alla propria vita arriva con la morte
dell'altro e ogni mediazione o regola che rallenta il progresso della
sopraffazione virtuosa è un atto di viltà. Dunque, la vita è
esercizio della forza. Il suo frutto più maturo ed ammirevole è il
rito dello schiacciamento dell'altro. E' la sua umiliazione,
accompagnata se possibile dallo spettacolo della sua derisione.
Il
nazismo appare al sadico la risposta più convincente al suo bisogno
di ribellione e di rivoluzione contro un mondo ostinatamente
colpevole di resistere nel riconoscimento del diritto quotidiano alla
vita del tuo simile. L'essenza del nazismo è la tortura perchè
“l'uomo
sussiste solo nell'annientamento dell'altro”.
Améry si considera fortunato. Sotto tortura non ha parlato solo
perchè effettivamente non sapeva nomi e indirizzi: altrimenti si
sarebbe rivelato “il
codardo che magari sono e il traditore che potenzialmente già ero”.
Amèry
va letto e mi vergogno di averlo fatto tardi. Nel suo “I
sommersi e i salvati”
del 1986, Primo Levi apre con lui una dialettica aspra e
imbarazzante, essendo come lui salvato dal lager, ma poi tragicamente
sommerso dalla comune scelta del suicidio: il primo nel 1978, il
secondo nel 1987. Per Améry, ad Auschwitz “l'uomo
dello spirito era isolato, del tutto abbandonato a se stesso”.
Resistevano marxisti militanti e cattolici o Testimoni di Geova, ai
quali la fede politica o religiosa forniva la chiave per spalancarsi
la porta del futuro in questa terra o nell'al di là (l'Unione
Sovietica o il Paradiso). Ma per lui, intellettuale scettico ed
illuminista, nessuna pietà, nessuna difesa. Il triviale imperativo
di vivere divorava lo spazio di ogni residua umanità e la poesia
perdeva il potere di sfidare la realtà. Non era “l'armonia”
capace
di vincere “di
mille secoli il silenzio”.
Per
Primo Levi, invece, recitare il canto di Ulisse era una forma di
resistenza che permetteva di “ristabilire
un legame con il passato” e
di salvarlo dall'oblìo. Fortificava e promuoveva la sua identità.
Provava che la sua mente non aveva cessato di funzionare. A dispetto
degli stenti e delle umiliazioni, la sua dignità giaceva ribelle e
luminosa in uno scrigno inviolabile.
Mario Dellacqua
JEAN
AMERY,
Intellettuale ad Auschwitz, Bollati
Boringhieri.
abbiamo combinato un pasticcio a causa dei refusi che si sono prodotti non so come. rimedieremo in settimana. scusate e ciao a tutti. mario
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