domenica 22 gennaio 2012

il girasole della memoria

Quando si vive in situazioni difficili o, peggio, estreme il ricordo può sembrare un lusso. Le strettoie del presente rendono angusti gli orizzonti. Sotto la sferza degli egiziani, dice il libro dell’Esodo, gli ebrei si limitarono a gridare. Dimentichi delle promesse del loro Dio, non pregavano neppure; si limitavano ad alzare lamenti. Furono questi ultimi che, se così si potesse dire, si incaricarono di turbare il Signore ridestandone la memoria (cfr. Es 2,23-24).
Oggi in Italia la situazione è grave ma non ancora catastrofica, serpeggia però la paura che lo possa diventare. In questo clima celebrare i giorni della memoria «per non dimenticare» (per di più se compiuti «a norma di legge») ha senso solo se essi diventano occasione di un autentico dibattito etico spoglio di componenti celebrative e aperto verso un confronto e una discussione autentici, in quanto tali già di per sé espressione (e non certo tra quelle di minor profilo) della morale. Non foss’altro per questo, Il girasole di Simon Wiesenthal va giudicato uno dei grandi testi morali del Novecento.
Gli scritti morali raggiungono il proprio apice non quando assumono la veste di trattati, saggi o sottili aforismi individuali; per essere davvero all’altezza del loro compito, debbono piuttosto testimoniare il vissuto e divenire nel contempo interrogazioni attorno all’esperienza da essi narrata. Siamo perciò agli antipodi della casistica, la quale parte dalla teoria per poi impelagarsi nel vano tentativo di incasellare il vissuto. In definitiva, le autentiche riflessioni etiche devono avere caratteristiche paragonabili a quelle che emergono, ad esempio, dal raffronto fra i due grandi testi che aprono e chiudono lo scrivere di Primo Levi, Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati: se non ci fosse stato il primo non sarebbe comparso neppure il secondo.
Il libro di Wiesenthal ha entrambe queste caratteristiche, con l’aggiunta di presentare un dibattito contraddistinto da un’accentuata nota di coralità. Nato da un’estrema esperienza personale, il testo è infatti diventato, con gli anni, un luogo di sempre maggior confronto a più voci sul ruolo assunto dal perdono nella vita individuale e collettiva.
Durante la guerra lo Häftling Wiesenthal, un giorno, fu condotto fuori dal lager per svolgere, assieme ad alcuni suoi compagni, il compito particolarmente ingrato di eliminare residui provenienti dalle camere operatorie del politecnico di Leopoli (dove Wiesenthal si era addottorato in architettura) allora trasformato in ospedale militare. Mentre stava svolgendo quella mansione, un’infermiera lo convocò in modo inatteso al capezzale di un giovane SS morente, il quale, dopo avergli raccontato il proprio coinvolgimento in una efferata strage di ebrei, chiede a lui in quanto ebreo di essere perdonato per le atrocità commesse. In quel frangente, l’anonimo deportato veniva, dunque, considerato una specie di rappresentante collettivo dell’intero popolo ebraico. Di fronte alla richiesta Wiesenthal, che prima aveva a lungo ascoltato, se ne andò in silenzio senza dar corso alla supplica rivoltagli da una persona che giaceva sul letto di morte. Alla fine della guerra, Simon Wiesenthal, dopo faticose ricerche, visitò la madre del defunto, non osando, tuttavia, svelarle quanto compiuto da quello che lei riteneva ancora il suo «bravo ragazzo».
La vicenda, stesa per iscritto, fu inviata dal suo autore, negli anni sessanta, a eminenti personalità a cui fu chiesto di formulare una valutazione sul comportamento assunto da Wiesenthal in quella drammatica circostanza. Successivamente i commenti sono cresciuti con l’intervento di persone non direttamente interpellate da Wiesenthal. Nella sua veste attuale questo libro si presenta, anche al di là del caso specifico in oggetto, come una specie di riflessione polifonica di filosofia e/o teologia morali sul tema del perdono. In esso prospettive ebraiche, cristiane e laiche si confrontano su un caso che non consente schematiche semplificazioni e in cui è impossibile indulgere a facili retoriche perdonistiche*.
Anche il lettore è costretto a decidere; ma, se è sincero, non lo può fare né a priori, né in base a un semplice schierarsi. Al di là della risposta a cui si può giungere (o anche non giungere), l’appello morale del testo si estrinseca appieno già nella sua capacità di mettere in moto la coscienza di ciascuno. L’approccio corretto ha bisogno di smascherare falsi presupposti. Uno tra essi sta nel fatto che tutto quanto concerne la Shoah, la sua memoria e i suoi interrogativi sia, in definitiva, un avvenimento che riguarda in modo precipuo e quasi esclusivo gli ebrei, operazione quest’ultima che, volente o nolente, attenua l’attenzione da riservarsi ai persecutori. Nel caso a cui stiamo qui riferendoci, qualora si assumesse un simile approccio, l’interrogativo e la valutazione morale tenderebbero inevitabilmente a incentrarsi più sul tema del perdono non concesso dal perseguitato che sulla forza devastante di un regime totalitario che ha potuto trasformare un «bravo ragazzo», educato religiosamente, in un vero e proprio carnefice. Anche per questa via si approderebbe perciò a quella metafisicizzazione di Auschwitz, visto come «male assoluto», che, nel suo apparente radicalismo, invece di incrementare il senso di responsabilità, non fa che attenuarlo.

Piero Stefani

* S. Wiesenthal, Il girasole, Garzanti, Milano 2000. In quest’ultima edizione le voci che commentano il racconto sono ben quarantasette. A puro titolo esemplificativo tra i primi interpellati citiamo la presenza del grande pensatore ebreo A. J. Heschel, di Primo Levi, di H. Marcuse, del teologo riformato tedesco H. Gollwitzer, di prestigiosi pesatori cattolici come G. Marcel e J. Maritain, del card. F. König e l’«architetto di Hitler» Albert Speer, ecc.

1 commento:

  1. Quando si parla di male assoluto e nelle commemorazioni si comincia e si finisce col trasmettere il tradizionale messaggio ("Mai più") si rischia di commettere un errore. Quello di tracciare un'assolutoria linea di separazione fra ieri e oggi, come se da quel male fossimo immuni e definitivamente al sicuro. Forse bisognerebbe chiedersi quanto nella nostra società riproduce i medesimi meccanismi di discriminazione, di segregazione, di fabbricazione del capro espiatorio sempre connesso con la cercata ammirazione per il capo. La discussione muterebbe di segno, lascerebbe le liturgie della commemorazione e ci precipiterebbe nei drammi dell'oggi. Ma a Corigliano calabro e a Rosarno non ci sono persone segregate seppur senza reticolati e camere a gas, ma ugualmente condannate alla schiavitù e colpevolizzate per la loro condizione di povertà e clandestinità? Ma a Torino il fuoco purificatore non è stato usato per far pagare a una comunità la colpa di un singolo? Eccetera.
    Ciao a tutti e arrivederci a venerdì 27.
    mario

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