Mi
capitano tra i piedi, nel giro di pochi mesi, i morti di Lampedusa,
l'”Intellettuale
ad Auschwitz”
di Jean Améry e “La
Resistenza spiegata a mia figlia” di
Alberto Cavaglion, uno storico torinese non tanto allineato emigrato
all'Università di Firenze. Da Cavaglion a Thomas Mann e al suo
“Mario
e il mago” il
passo è breve quanto obbligato. I morti di Lampedusa non me li
potevo risparmiare, ma non me l'ha ordinato il medico di stabilire
un'ostinata connessione fra le sciagure del razzismo odierno, le
performance del dodicennio nazista e la genesi ingloriosa del nostro
ventennio mussoliniano.
Ce
n'è abbastanza per sprofondare in uno stato di acida depressione e
di sordo risentimento, specie quando operai meridionali vomitano su
zingari e stranieri le stesse crudeltà che, solo una cinquantina di
anni fa, si leggevano in Piemonte su cartelli ben decisi a non
affittare case a meridionali. Non saprei dire meglio di Franco
Arminio: “il
paese vuole che i suoi abitanti siano militanti dello scoraggiamento
col grembiule del rancore addosso”.