domenica 4 gennaio 2015

PADRE ANGELICO E NOI


La ricordo ancora quella monumentale cascina che presidiava la piazza Magenta a None. Il portone metteva in una grande aia uguale a tante altre: il fienile (“trabial”), una lunga balconata sbilenca coperta da un vitigno di uva americana, la stalla, l'immancabile “pantalera” per la stagionatura delle pannocchie di granturco, la pompa con il suo “baciass”. Un'altra pompa, fuori, sorvegliava l'incrocio con “la rubatera” (via Beccaria) e il suo “baciass” sopravvive nel giardinetto del moderno condominio che ha preso il posto dell'antica casa rurale dei Pittavino.
Un po' defilata, una lapide tributa un melanconico omaggio alla memoria di Padre Angelico, al secolo Matteo (“Matelin”), che nacque tra quelle mura il 28 maggio 1875 in una famiglia contadina abituata come tutte le altre, tra fienagione, mietitura e giorni di “samboira”, ad accontentarsi di respirare fatica e obbedienza in una comunità governata nei suoi comportamenti e nei ritmi quotidiani della vita dall'autorità delle tradizioni religiose.

La vocazione francescana portò presto Matelin lontano da casa. Mosso dalla curiosità di sapere, non gli bastò dirigere istituzioni religiose o insegnare nei seminari teologia e filosofia trasferendosi ora a Giaveno, ora a Chieri, ora a Villafranca o a Racconigi, Revello, Busca e Caraglio. Il mondo e l'umanità sofferente degli sconosciuti lo attraevano, lui che, giovanissimo, era miracolosamente scampato al vaiolo. La grande avventura missionaria era il sogno di Matelin, diventato Angelico una volta indossato il saio dei cappuccini.
Partì verso l'Eritrea senza un baule con l'umiltà di chi si rende disponibile “a turare un buco” e sbarcò a Massaua il 18 febbraio 1913. Trascorse 23 anni dividendosi tra la zona di Cheren e quella di Mehlab a dorso di mulo o a piedi. Mentre in Europa infuriavano due guerre, combattè in Eritrea la sua pacifica battaglia per la fede e contro la povertà. Aprì ambulatori e curò piaghe. Assistette i più deboli, i malati e gli orfani. Seppellì cadaveri. Cucinò, lavò e rassettò come uno sguattero. Affrontò la siccità, la furia delle cavallette, la spagnola e persino la lamentela di qualche missionario che lo accusava di aver accumulato troppe cariche nelle sue mani. Arguto e garbato nel suo umorismo fraterno, “parlava bene di tutti, male di nessuno e taceva sempre di sé”. Si lasciava guidare da un vecchio proverbio piemontese: “la voce della bocca suona, ma la voce dell'esempio tuona”. Mandato a predicare in competizione con l'Islam, istruiva e formava preferendo l'invito al comando e su queste basi elaborò il progetto di un “monachesimo indigeno”.
Con l'occupazione britannica, non gli mancò l'esperienza della deportazione che lo rinchiuse nel campo di concentramento di Mandera fra il luglio 1941 e il dicembre 1942:  fagioli rancidi, poco altro cibo disgustoso, 50 gradi all'ombra e dissenteria. Dopo la lunga parentesi della prigionia, il forzato rimpatrio nel gennaio '43, il rientro a None e a Bra dove morì il 15 gennaio 1953.
Niente è più diseducativo che rimpiangere con impotente e compiaciuta nostalgia i tempi e gli esempi della santità perduta e irripetibile. Meglio interrogarsi sui nessi tra passato e presente. Gli eredi di Padre Angelico, i nipoti di quelli che lo hanno conosciuto, li ritroviamo oggi sfidare la traversata del Mediterraneo per fuggire un regime sanguinario. Isaias Afewerki, il dittatore al potere dal 1993, ha trasformato l'Eritrea in uno stato prigione con diecimila detenuti politici. Ha introdotto la leva obbligatoria fino a 50 anni. Ha istituito l'obbligo di versare una percentuale dei guadagni per chi fugge all'estero, pena la ritorsione verso le famiglie. Nell'attraversamento del deserto del Sahara fino alla Libia, è altissimo il rischio di cadere vittime delle bande beduine che trafficano uomini e addirittura organi o rapiscono eritrei, sudanesi ed etiopi per chiedere riscatti fino a 40mila dollari: una cifra inesigibile.
Invano da anni il sacerdote eritreo don Moses Zerai chiede sia al governo eritreo di Afewerki, sia a quello sudanese, garanzie di rispetto dei diritti umani e a tal fine l'ONU ha avviato una Commissione di inchiesta con esiti sinora deludenti. Don Moses Zerai dubita che l'Italia possa stabilire con un governo così screditato come quello eritreo un dialogo proficuo e leale. Il viceministro degli Esteri Lapo Pistelli ribatte che Aferweki non offre in effetti alcuna garanzia, ma resta l'unico interlocutore in campo. E chi sa queste cose? Bisogna leggere “Avvenire” o “Il manifesto”.
Che fare? Chi dice di “aiutarli a casa loro”, fa finta. In realtà vuole solo evitare che la straripante povertà eritrea raggiunga l'Italia e disturbi i nostri equilibri resi sempre più precari dall'imperversare della crisi economica. Già, ma i nostri governi hanno affossato questa possibilità. Nel 2011 il governo italiano ha operato un taglio del 45% ai fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo, stanziando effettivamente 179 milioni di euro, la cifra più bassa degli ultimi 20 anni. Destinando a questo ambito lo 0,2 del Pil, ci collochiamo agli ultimi posti per stanziamenti fra i paesi occidentali. 
Quanto all'inimitabilità dei santi, non coprirei di disprezzo e disistima le nostre generazioni. A dispetto dello stereotipo del bamboccione viziato diffuso a piene mani per screditarle, esse esprimono grandi e inutilizzate risorse di solidarietà nel volontariato sia religioso sia laico. Piuttosto, il volontariato giovanile sembra coltivare e non combattere il suo limite più grande: quello di voler fare il pane rifiutando ostinatamente di sporcarsi il grembiule di farina, cioè di avanzare il suo protagonismo innovatore sul terreno della politica. Speculare risulta il limite di quanti, lanciatisi all'avventurosa conquista dei poteri pubblici attraverso sempre nuove e unitarie formazioni politiche, hanno privilegiato i conflitti dimostrativi e le confezioni elettorali. Soprattutto, essi hanno tralasciato di impegnarsi nella democratizzazione della vita quotidiana. Hanno fatto finta di non capire che è decisivo e vitale insediare sul territorio vincoli di solidarietà e pratiche diffuse di mutuo soccorso, senza delle quali la conquista del potere non riesce a difendere nessuna conquista, ma si rivela presto vuota perchè fondata sulla sostituzione di un ceto politico ad un altro.
Trovo sempre convincente l'inguaribile ottimismo che sorreggeva Alberto Tridente, anche nei suoi ultimi anni di vita: era un ottimismo “basato su quanto di nobile esiste nell'essere umano che al meglio si esprime nella solidarietà e nel dono. Traggo fiducia ed energia dai molti e generosi esempi di dedizione di quanti ogni giorno si applicano all'attività nel volontariato, nelle ong, nelle cooperative sociali, negli ospedali” e sanno offrire il proprio impegno libero “alla cittadinanza da credenti e da laici, uomini e donne dagli alti profili civili e anche, nonostante tutto, da molti altri onestamente impegnati ogni giorno nella politica”.

Mario Dellacqua

P.S. Ho scritto queste note dopo aver letto, su sollecitazione di un'amica, il volumetto di Padre Alessandro Rossi, “Venerabile Padre Angelico da None”, edito a cura della Vice-Postulazione del Convento dei Cappuccini di Bra. Padre Rossi conobbe Padre Angelico di persona.

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