La
ricordo ancora quella monumentale cascina che presidiava la piazza Magenta a
None. Il portone metteva in una grande aia uguale a tante altre: il fienile (“trabial”),
una lunga balconata sbilenca coperta da un vitigno di uva americana, la stalla,
l'immancabile “pantalera” per la stagionatura delle pannocchie di
granturco, la pompa con il suo “baciass”. Un'altra pompa, fuori,
sorvegliava l'incrocio con “la rubatera” (via Beccaria) e il suo “baciass”
sopravvive nel giardinetto del moderno condominio che ha preso il posto
dell'antica casa rurale dei Pittavino.
Un
po' defilata, una lapide tributa un melanconico omaggio alla memoria di Padre
Angelico, al secolo Matteo (“Matelin”), che nacque tra quelle mura il 28
maggio 1875 in una famiglia contadina abituata come tutte le altre, tra
fienagione, mietitura e giorni di “samboira”, ad accontentarsi di
respirare fatica e obbedienza in una comunità governata nei suoi comportamenti
e nei ritmi quotidiani della vita dall'autorità delle tradizioni religiose.
La
vocazione francescana portò presto Matelin lontano da casa. Mosso dalla
curiosità di sapere, non gli bastò dirigere istituzioni religiose o insegnare
nei seminari teologia e filosofia trasferendosi ora a Giaveno, ora a Chieri,
ora a Villafranca o a Racconigi, Revello, Busca e Caraglio. Il mondo e
l'umanità sofferente degli sconosciuti lo attraevano, lui che, giovanissimo,
era miracolosamente scampato al vaiolo. La grande avventura missionaria era il
sogno di Matelin, diventato Angelico una volta indossato il saio dei
cappuccini.
Partì
verso l'Eritrea senza un baule con l'umiltà di chi si rende disponibile “a
turare un buco” e sbarcò a Massaua il 18 febbraio 1913. Trascorse 23 anni
dividendosi tra la zona di Cheren e quella di Mehlab a dorso di mulo o a piedi.
Mentre in Europa infuriavano due guerre, combattè in Eritrea la sua pacifica
battaglia per la fede e contro la povertà. Aprì ambulatori e curò piaghe.
Assistette i più deboli, i malati e gli orfani. Seppellì cadaveri. Cucinò, lavò
e rassettò come uno sguattero. Affrontò la siccità, la furia delle cavallette,
la spagnola e persino la lamentela di qualche missionario che lo accusava di
aver accumulato troppe cariche nelle sue mani. Arguto e garbato nel suo
umorismo fraterno, “parlava bene di tutti, male di nessuno e taceva sempre
di sé”. Si lasciava guidare da un vecchio proverbio piemontese: “la voce
della bocca suona, ma la voce dell'esempio tuona”. Mandato a predicare in
competizione con l'Islam, istruiva e formava preferendo l'invito al comando e
su queste basi elaborò il progetto di un “monachesimo indigeno”.
Con
l'occupazione britannica, non gli mancò l'esperienza della deportazione che lo
rinchiuse nel campo di concentramento di Mandera fra il luglio 1941 e il
dicembre 1942: fagioli rancidi, poco
altro cibo disgustoso, 50 gradi all'ombra e dissenteria. Dopo la lunga
parentesi della prigionia, il forzato rimpatrio nel gennaio '43, il rientro a
None e a Bra dove morì il 15 gennaio 1953.
Niente
è più diseducativo che rimpiangere con impotente e compiaciuta nostalgia i
tempi e gli esempi della santità perduta e irripetibile. Meglio interrogarsi
sui nessi tra passato e presente. Gli eredi di Padre Angelico, i nipoti di
quelli che lo hanno conosciuto, li ritroviamo oggi sfidare la traversata del
Mediterraneo per fuggire un regime sanguinario. Isaias Afewerki, il dittatore
al potere dal 1993, ha trasformato l'Eritrea in uno stato prigione con
diecimila detenuti politici. Ha introdotto la leva obbligatoria fino a 50 anni.
Ha istituito l'obbligo di versare una percentuale dei guadagni per chi fugge
all'estero, pena la ritorsione verso le famiglie. Nell'attraversamento del
deserto del Sahara fino alla Libia, è altissimo il rischio di cadere vittime
delle bande beduine che trafficano uomini e addirittura organi o rapiscono
eritrei, sudanesi ed etiopi per chiedere riscatti fino a 40mila dollari: una
cifra inesigibile.
Invano
da anni il sacerdote eritreo don Moses Zerai chiede sia al governo eritreo di
Afewerki, sia a quello sudanese, garanzie di rispetto dei diritti umani e a tal
fine l'ONU ha avviato una Commissione di inchiesta con esiti sinora deludenti.
Don Moses Zerai dubita che l'Italia possa stabilire con un governo così
screditato come quello eritreo un dialogo proficuo e leale. Il viceministro degli
Esteri Lapo Pistelli ribatte che Aferweki non offre in effetti alcuna garanzia,
ma resta l'unico interlocutore in campo. E chi sa queste cose? Bisogna leggere “Avvenire”
o “Il manifesto”.
Che
fare? Chi dice di “aiutarli a casa loro”, fa finta. In realtà vuole solo
evitare che la straripante povertà eritrea raggiunga l'Italia e disturbi i
nostri equilibri resi sempre più precari dall'imperversare della crisi
economica. Già, ma i nostri governi hanno affossato questa possibilità. Nel
2011 il governo italiano ha operato un taglio del 45% ai fondi destinati alla
cooperazione allo sviluppo, stanziando effettivamente 179 milioni di euro, la
cifra più bassa degli ultimi 20 anni. Destinando a questo ambito lo 0,2 del
Pil, ci collochiamo agli ultimi posti per stanziamenti fra i paesi
occidentali.
Quanto
all'inimitabilità dei santi, non coprirei di disprezzo e disistima le nostre
generazioni. A dispetto dello stereotipo del bamboccione viziato diffuso a
piene mani per screditarle, esse esprimono grandi e inutilizzate risorse di
solidarietà nel volontariato sia religioso sia laico. Piuttosto, il
volontariato giovanile sembra coltivare e non combattere il suo limite più
grande: quello di voler fare il pane rifiutando ostinatamente di sporcarsi il
grembiule di farina, cioè di avanzare il suo protagonismo innovatore sul
terreno della politica. Speculare risulta il limite di quanti, lanciatisi
all'avventurosa conquista dei poteri pubblici attraverso sempre nuove e
unitarie formazioni politiche, hanno privilegiato i conflitti dimostrativi e le
confezioni elettorali. Soprattutto, essi hanno tralasciato di impegnarsi nella
democratizzazione della vita quotidiana. Hanno fatto finta di non capire che è
decisivo e vitale insediare sul territorio vincoli di solidarietà e pratiche
diffuse di mutuo soccorso, senza delle quali la conquista del potere non riesce
a difendere nessuna conquista, ma si rivela presto vuota perchè fondata sulla
sostituzione di un ceto politico ad un altro.
Trovo
sempre convincente l'inguaribile ottimismo che sorreggeva Alberto Tridente,
anche nei suoi ultimi anni di vita: era un ottimismo “basato su quanto di
nobile esiste nell'essere umano che al meglio si esprime nella solidarietà e
nel dono. Traggo fiducia ed energia dai molti e generosi esempi di dedizione di
quanti ogni giorno si applicano all'attività nel volontariato, nelle ong, nelle
cooperative sociali, negli ospedali” e sanno offrire il proprio impegno
libero “alla cittadinanza da credenti e da laici, uomini e donne dagli alti
profili civili e anche, nonostante tutto, da molti altri onestamente impegnati
ogni giorno nella politica”.
Mario Dellacqua
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