Quasi in ogni pagina di questo romanzo della scrittrice
rolettese Daniela Frezet, trovi una brezza che ti soffia sul muso sapori di
latte, o una stufa che fa crepitare legna profumata, o un orto che scambia con
un bosco colori da trovare per magia o da coltivare con intima pazienza. Rimani
rapito dalla sua mano tenera e ribelle come un'adolescente che sa parlare con
la saggezza di una novantenne e che ti porta tra i rami e le rocce di Roletto o
Cantalupa o Frossasco. Da quelle parti, immagini di incontrare i personaggi che
Daniela ricava da una manipolazione discreta e delicata della sua biografia. Al
centro, come una parabola obbligata, l'amore che lega la nipote alla bisnonna e
l'amore che lega la protagonista all'uomo della sua vita. L'amore è però un
vincolo che mostra di possedere il requisito della libertà solo se affronta con
coraggio stoico l'appuntamento con il dolore del distacco, sia quando
sopraggiunge la morte, sia quando si scopre che le strade della vita divergono
inesorabilmente e bisogna percorrerle separati. E per questa via soltanto si
guadagna la meta dell'emancipazione, dell'autonomia, della maturità.
Sullo sfondo, come una cornice ingombrante imposta dalle
tirannie della grande storia, giace inerte l'entusiasmo fatuo per Gorbaciov,
per il pacifismo, per i sogni di palingenesi aperti e presto richiusi dopo il
crollo del muro di Berlino. Alla fine, solo “resti inaccettabili e dolorosi
di sconfitta”: tra le macerie troneggia, con i consumi obesi e sciocchi
dell'Italia opulenta, l'eroica rinuncia alla rivoluzione o alle riforme perchè “l'unica
rivoluzione possibile è quella che nasce dentro di noi”. Lo slogan caro a
tutti gli ambienti e a tutti i movimenti religiosi (cristiani o
orientaleggianti) che Comunione e Liberazione ci rifilava già baldanzosa negli
anni Settanta, torna suggestivo per convincere una generazione frastornata e
senza memoria a rinunciare al dovere di cercare ancora e di provare a fare la
rivoluzione o le riforme governando. A ripiegare nel tepore protettivo del
crepuscolo. A indossare come una risorsa la maschera della prospettiva
intimistica incoraggiata dal caffelatte del Mulino Bianco o dai coltelli
perennemente infangati per la cicoria.
E alla fine che resta? Il piacere impagabile e autentico del
timo serpillo, il desiderio delle uova nel pollaio, persino il sogno
accarezzabile di comprarsi una mucca da mungere. Un po' poco. Anzi, un peccato.
Ma devo riconoscere che anch'io non ho più molto altro a disposizione. Nescio,
sed fieri sentio et excrucior.
Mario Dellacqua
D. FREZET, Sarebbe
un peccato, Prefazione di Cristiana Vivalda, Edizioni Puntoacapo, 2011,
pag.116, euro 15.
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