A cavallo fra il 1981 e il 1982, Vittorio Foa era a Torino. Chiamato come professore a contratto alla Facoltà di Scienze
Politiche su proposta di Dora Marucco animò con Betty Benenati un seminario sui mutamenti delle relazioni industriali e sulla parabola della rappresentatività sindacale.
Foa aveva scelto di dedicarsi per intero agli studi e studiosamente si asteneva da qualsiasi partecipazione ad iniziative che potessero essere sospettate di collateralismo con progetti di ricostruzione o ricomposizione politica. Quella disciplina interiore trasformò il seminario in una palestra di ricerche feconde perchè libere dai vincoli degli appuntamenti con le scadenze soffocanti della lotta per l'egemonia (?) nell'arena politica. Ciò avvenne grazie agli interventi di protagonisti autorevoli come Bruno Trentin, Eraldo Crea, Rinaldo Scheda, Ada Becchi Collidà, Enrico Pugliese, di volta in volta interrogati
senza
protezioni
diplomatiche da una platea di studenti presto mescolati con un drappello di dirigenti sindacali e di delegati operai torinesi mossi alla riflessione dalla consapevolezza che una stagione di avanzata sociale volgeva al tramonto. Bisognava cercare ancora.
In quel clima, nella sua fraterna e filiale sintonia con Vittorio Foa, Pietro Marcenaro portò a maturazione un originale bilancio della propria vita di dirigente sindacale e politico, rivisitata alla luce di un'esperienza operaia in una fabbrica metalmeccanica torinese. Le riflessioni di Marcenaro in “Riprendere tempo” (Einaudi 1982)
aravano un terreno già esplorato nel 1975 da Giulio Girardi, con una ricerca
FLM pubblicata da De Donato nel 1980 (“Coscienza operaia oggi”) e poi
ingiustamente caduta nell'oblìo. Marcenaro e il postillatore Foa indussero
le
varie
scuole
dell'ortodossia
a
levare
gli
scudi
in
difesa
del
leso
concetto
di
classe
– sovrano
principio
ordinatore
di
ogni
rivoluzione
e
di
ogni
riforma
– perchè
avevano
il
torto
di
scoprire
nei
comportamenti operai domande formicolanti e prepotenti di libertà che la democrazia organizzata dei sindacati e dei partiti di sinistra non riusciva a intercettare e a interpretare. Naturalmente, nel crepuscolo della centralità operaia, non mancò chi volle vedere la fine – desiderata o temuta - della classe operaia e della storia: i primi pezzi del muro di Berlino ci stavano cadendo in testa a Torino con quasi dieci anni di anticipo.
Al Seminario, Vittorio Foa conobbe il mio amico Orso (Bruno Redoglia), operaio per vent'anni all'Indesit di None, anarchico in
gioventù, elettricista di straordinaria professionalità, “apprendista
comunista” di sconfinate letture e dalla vita coerente con i suoi ideali di
lotta al consumismo. Il dialogo divenne presto intenso e scoppiettante, a causa della facilità che portava i due a discutere della vita e della politica rompendo la disciplina che le voleva gerarchicamente separate dall'autorità di una militanza totalizzante.
Nella sua lettera, Orso confidava a Vittorio la propria sofferenza personale per la solitudine e la disperazione giullaresca nella quale si dibatteva il nostro amico Piero, uno dei 61 operai in odor di terrorismo licenziati dalla Fiat nell'autunno 1979. Piero era già stato licenziato
dall'Indesit
e,
dopo
lo
spettacolare allontanamento dalla Fiat, combattè la malattia e la propria crisi esistenziale in
mille modi. Lavorò precariamente nell'edilizia e trovò una collocazione stabile
nelle miniere di Talco in Val Germanasca. Ma la terapia più efficace fu forse
la scrittura di un libro (“Niente di nuovo sotto il sole” ora pubblicato
da
PonSinMor
con
prefazione
di
Diego
Giachetti)
sulla
sua
esperienza
di
militante
operaio
a
Rivalta.
Orso
consegnò il libro a Foa chiedendogli di espriemere un suo giudizio.
Foa rispose da par suo. Sfidando Gramsci, motivò quell'ottimismo strategico che sorprendeva, che lo rendeva sempre curioso del futuro, che gli trasmetteva un'ansia inesausta di domandare e di ascoltare senza usare la propria memoria come un'autorità da riverire.
Ho trovato recentemente queste lettere tra le carte private di Orso. Mi sembra doveroso condividerle con amici e compagni.
Mario
Dellacqua
P.S. Una sera del 1984 Giovanna ed io invitammo a cena Vittorio Foa, Pietro Marcenaro, Dora Marucco, Betty Benenati e Orso. Incredibile: vennero tutti. Offrimmo il miglior
nebbiolo
che
avevamo
e
la
serata
fu
indimenticabile. Orso, Vittorio e Betty ci hanno lasciato. Con il cuore gonfio di commozione e di gratitudine, vorrei essere capace di conservare il loro insegnamento
a
tenere
sempre
aperto
uno
spazio
per
nuove
bottiglie
e
nuovi
amici.
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