Detesto la
cittadinanza diffusamente accordata da decenni alla volgarità del linguaggio.
Chi indossa questa maschera prepotente vuol coprire un vuoto di buoni
argomenti, un'incapacità di dialogo e di ascolto, un'assenza di eleganza
interiore. Una forma di violenza e di agghiacciante povertà.
Tuttavia, la mia non
è nostalgia per il precetto della castità che all'Oratorio ti insegnava con
Domenico Savio a preferire “la morte ma non peccati” e educava a vedere
nella donna la sorgente della tentazione da combattere. Questa morale
sessuofobica ha fatto molti danni. Per carità, niente di irrimediabile. Solo
non so se basta tutta l'acqua degli oceani per ripulire superfici e profondità
incrostate, e per restituire ai colori della vita l'innocenza aggredita da
millenni di pedagogia della paura.
Domenico Starnone,
con la sua “Autobiografia erotica di Aristide Gambìa”, esplora in lungo
e in largo i recessi più imbarazzanti della sessualità. Il suo linguaggio non
teme la fedele riproduzione dello sguaiato. La sua voluttà di dire l'indicibile
non ha pietà del vietato ai minori, il suo gusto del proibito ci offre un
campionario sterminato di scene dell'osceno descritte nell'interdisciplinarietà
di tutti i loro aspetti meccanici e idraulici.
Ho detto dell'osceno perchè, al confronto, è roba da seminaristi il sexy
che abbiamo conosciuto con il gelsomino notturno di Pascoli, o nelle colline
mammelliformi di Pavese, o in quelle che fanno ricordare a D'annunzio una bella
donna con le sue labbra morbide chiuse
in un divieto, o in quelle “cosce tese chiuse come chiese” in Antonello
Venditti. La magia del sexy si distingue dall'osceno perchè ha bisogno
di immaginazione poetica che si nutre di un potere di velare e rivelare capace
di continuo rinnovamento. E' stato Leopardi a insegnarci che l'immaginazione è
più piacevole della realtà. Ecco perchè il corpo femminile, ricoperto dalla “siepe”
degli abiti, mette in moto l'immaginazione e rende la sua visione più piacevole
di quanto non faccia la pura esposizione della nudità.
Il romanzo libertino
di Starnone è tutto il contrario. Giocando con la lingua, le lingue e le
etimologie del napoletano, del latino e del greco il suo rosario trasgressivo
ci porta là dove l'eros umilia le resistenze della poesia e varca i confini che
lo separano dai territori dello scomposto. Intellettuale raffinato con
ambizioni pedagogiche, il protagonista del romanzo di Starnone sa tutto
l'immaginabile e il praticabile in tecnologie del corteggiamento,
dell'adescamento, dello sfondamento. Ma qua e là, tra peli e pelle in trionfale
esposizione, fa capolino un portentoso incidente che alla fine conquista la
scena. Quando arriva lo smottamento con annesso cedimento strutturale degli
affetti e delle famiglie, tutto sembra crollare e l'uomo che caccia, domina,
conquista, possiede, prende ed è preso, lascia ed è lasciato, si scopre in
tutta la sua fragilità e solitudine. In questo “lampeggiare di sangue, colpe
e audacia”, Pascoli direbbe che “cielo e terra si mostrò qual era”. Aristide
Gambìa sa tutto del sesso e nulla dell'umanità. “Dopo un'esistenza di coiti
appassionati, ma senza legami veramente forti”, si scopre “accampato in
una sorta di deserto affettivo, bianco, sghembo, serenamente deluso dai
risultati del suo percorso erotico, convinto di non essere mai stato amato e
scettico sulla sua stessa capacità di amare” (p.322). In questo deserto
affettivo crolla persino la distinzione, fino alla fine sapientemente governata
pur nella variabilità delle focalizzazioni, fra narratore e autore. Starnone
denuda non solo i corpi, ma la meschinità dei “pensieri nascosti che rendono
ambigui quelli palesi”. Misura la “allegra dissoluzione di ogni
moralismo”, la “saccenteria permalosa del superficiale” che porta la donna,
nel racconto di un uomo, a diventare una tappa, una tacca che figura in un
elenco da collezionisti (pag.231). Che trascina il medesimo uomo a soffrire “non
per la perdita delle figlie, ma per la colpa di godere della vita pur avendole
perdute” (pag.320).
Nell'ultima parte del
romanzo, Aristide Gambìa, alter ego di Starnone, gioca a rimpiattino con
il ruolo di Starnone-autore: scopre in prima persona la “irrintracciabilità”
delle donne della sua vita e confessa la sua stessa capacità di descriverne la
personalità sfuggente alla maestria della sua penna così pronta nel cogliere i
miracoli, i tracolli e i misteri della sessualità.
Il mistero non è solo
l'identità delle donne, tanto più imprendibile quanto più se ne persegue il
possesso. Mistero è l'amore con il fascino violento e vitale delle sue energie,
con le sue leggi, con la sua fragilità e il suo continuo risorgere proprio
quando sembra tradito, calpestato, perduto e immiserito. In quest'opera di
scavo impietoso nella propria memoria famigliare, Starnone non si accontenta di “una
commemorazione quieta della presenza delle donne nella sua vita”, ma
addirittura si lancia sulle tracce dell'imprendibile madre con
affetto struggente e lucido: non tace le
violenze subite per mano del padre, ne ricerca le paure, le gioie e i silenzi
che mai avevano fatto ombra alla sua traboccante voglia di vita e di felicità.
Insomma,
non ha voluto fare un audace esercizio linguistico nelle praterie commerciali
dell'osceno. Neppure ha voluto “mostrarsi reciprocamente le ferite e
consolarsi”: ha voluto indicare per sé e per il lettore i possibili
sentieri della risalita. E, leggendolo
con crescente stupore, mi è venuta in
mente la zia di Kerouac, secondo la quale “il mondo non avrebbe mai trovato
pace finchè gli uomini non fossero caduti ai piedi delle loro donne chiedendo
perdono”.
Mario Dellacqua
DOMENICO
STARNONE, Autobiografia erotica di Aristide Gambìa
Einaudi 2011, p. 432, euro 12,50
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