Quelli sì che erano tempi. Correva l'anno 1987
quando Cesare Romiti indicava al pubblico ludibrio “quel rigurgito di anticapitalismo di
matrice cattolica e marxista che sta contagiando settori politici anche della
maggioranza”. Aveva
il vento in poppa l'Amministratore Delegato di Corso Marconi quando, a chi
protestava perchè la Fiat voleva prendersi tutto, dichiarava: “Guardi, la
parola anti-trust non mi piace proprio, mi lasci dire tutela della libera
concorrenza”. L'affermazione non avrebbe trovato il consenso di Pio XI che
nella “Quadragesimo anno” del 1931 deplorava “una tale concentrazione
di forze e di potere (..) frutto di quella sfrenata libertà di concorrenza che
lascia sopravvivere solo i più forti, cioè spesso i più violenti nella lotta e
i meno curanti della coscienza”. E nel 1990 Romiti poteva severamente
discutere di etica e di economia sentenziando che “in una società libera e
pluralistica, chi ha scelto di fare l'imprenditore ha l'obbligo morale di
perseguire il profitto della sua impresa con tutti i mezzi legittimi a sua
disposizione”.
E siccome non è possibile “stabilire che cosa significa
eccessivo”, bisogna togliere di mezzo una buona volta, insieme con questo
fastidioso “quesito”, anche le obiezioni ingombranti dell'uguaglianza
che, nemica dell'efficienza e della responsabilità, porta “fino agli estremi
eccessi del terrorismo e l'anarchia in fabbrica”. (Vedi AA.VV. Etica ed
Economia, “La Stampa”, 1990)
Ma quei tempi a volte ritornano. Intendiamoci: nessuno ha mai
contestato con la vivacità di Romiti Sant'Ambrogio e San Giovanni Crisostomo,
per i quali la divisione dei beni con i poveri non
è un atto di generosità, ma di doverosa restituzione di quanto è stato loro
rubato. “Non fai che rendergli ciò che gli appartiene”. E Cesare Romiti
non si è mai permesso di incrinare l'autorità di Pietro, che negli Atti degli
Apostoli fa fare una brutta fine ad Anania, reo di aver versato alla comunità
cristiana solo la metà dei suoi beni e non tutto all'atto della sua conversione.
Pur tuttavia, Papa Francesco è stato accusato di
marxismo dai molti maestri della scuola neoliberista. Il suo torto è quello di
contestare i benefici della globalizzazione. Il suo torto è quello di affermare
la necessità di tutelare le prestazioni del welfare e l'intervento dello
stato nell'economia. Il suo torto è quello di condannare la “cultura dello
scarto”, già vivisezionata da Zygmunt Bauman nel 2006, in base alla quale
il flagello della disuguaglianza sociale, sofferto collettivamente, si trasforma
in una risorsa goduta individualmente perchè misura il proprio successo dal
grado di fallimento e di esclusione degli altri. Il Papa ha torto perchè
critica la dottrina della “ricaduta positiva”, in base alla quale
l'arricchimento dei Paperoni non va avversato, ma religiosamente sopportato
nella fiduciosa attesa che esso faccia sgocciolare sui poveri quote
apprezzabili di benessere e di inclusione sociale. Papa Francesco ribatte che
il bicchiere riempito non ha fatto traboccare niente a vantaggio dei poveri ma,
una volta colmo, si è magicamente allargato. Pertanto Bergoglio conferma che “questa
economia uccide”.
Il suo linguaggio asciutto e candidamente
radicale ha stanato i suoi critici, anche se essi parlano con l'imbarazzo
prudente di chi, per evitare la certificazione pubblica di rotture combattute
come il demonio, cerca di allontanare da sé la responsabilità di gravi
divisioni nella Chiesa. Ciò non ha tuttavia potuto impedire che affiorasse in
superficie la pluralità delle diagnosi e delle terapie in vivace contrasto.
Questo libro di Giacomo Galeazzi e Andrea Tornielli lo documenta. I due vaticanisti de “La Stampa” hanno
il merito di raccogliere una selezione ben coordinata dei pronunciamenti del
Papa mettendoli a confronto con i suoi critici obbedienti.
Ettore Gotti Tedeschi, prima allo Ior, poi
consigliere di Tremonti alla Cassa Depositi e Prestiti, poi al Banco Santander
e all'Istituto San Paolo, dice che va cambiato l'uomo con la sua propensione
inguaribile all'invidia, all'accumulazione e alla corruzione. Ma non si può
pretendere la correzione politica del funzionamento naturale di un'economia che
– caso mai – ha visto ingigantire le sue difficoltà con il “crollo delle
nascite e le conseguenti ricadute sfavorevoli come l'invecchiamento della popolazione,
la necessità del mantenimento degli anziani, la crescita delle tasse, del
debito, la distruzione del risparmio”. Gotti vorrebbe più etica
nell'economia, ma gli duole dover riconoscere che purtroppo il cristianesimo
con le sue risposte giuste non può essere imposto per legge coranica.
Secondo il commentatore radiofonico americano
Rush Limbaugh, il Papa esagera nella condanna dell'idolatria del denaro,
proprio mentre Vaticano e Chiesa americana non avrebbero l'influenza e il peso
che hanno senza le tonnellate di dollari di cui sono proprietari. Secondo il
filosofo Michael Novak, il quale già non aveva digerito la critica di Benedetto
XVI alle delocalizzazioni, i giudizi secchi e severi di Papa Bergoglio sono
troppo influenzati dalla sua esperienza argentina che non può essere estesa
all'intero contesto occidentale. Possono essere sopportati come “omelia”,
ma non come dogma che si azzarda a scalfire i dogmi del liberismo. “Affidare
la giustizia sociale primariamente allo Stato è un errore”, aveva scritto
Novak in un testo del 2004 curato da Giulio De Rita (“Etica Democratica”,
Rubbettino). Dunque avanti con il no ai matrimoni gay, sì alle Confraternite di
San Vincenzo, ma niente collusioni con chiunque proponga interventi strutturali
di lotta alle disuguaglianze.
Il testo di Papa Francesco ha lo storico merito
di prendere la parola sul terreno dell'economia. Lungi dall'essere una scienza
esatta e neutrale, essa si rivela opinabile e mostra un inesorabile
combattimento fra modelli di sviluppo e visioni del mondo che sarebbe ipocrita
negare o anche solo edulcorare con doverosi quanto inefficaci richiami alla
conversione. Il testo del Papa costringe gli epigoni del neoliberismo ad uscire
allo scoperto, ma incoraggia prima di tutto i credenti a prendere la parola, a
non ritagliarsi il solo rispettabile spazio della testimonianza. Il mondo
cattolico, sempre composito e sottoposto alle mille sollecitazioni
contraddittorie dei poteri e dei gruppi sociali, è energicamente spronato a
fronteggiare il trauma della modernità non con la chiusura o la scomunica delle
libertà e delle rivoluzioni, ma con l'arma del dialogo e con l'incessante
lettura del “segno dei tempi” già avviata dall'esperienza conciliare.
Il messaggio del Papa è destinato anche a
incrociare il travaglio dei non credenti, specie quando esorta a non fermarsi e
a non rassegnarsi, quando incita a non abbandonare il campo dell'impegno
politico nelle mani di troppi avventurieri feroci e scriteriati, quando invita
a “lavorare sulla lunga durata, privilegiando l'avvio di processi piuttosto
che l'occupazione di spazi di potere”. Innescare processi “senza
chiuderli o definirli” prefigurandone l'esito a tavolino, vuol dire “iniziare
nuovi dinamismi nella società coinvolgendo altre persone e altri gruppi che li
faranno propri e li porteranno avanti”.
Mario Dellacqua
ANDREA TORNIELLI – GIACOMO
GALEAZZI
Papa Francesco. Questa economia uccide
Piemme 2015, pag. 220, euro 16,90
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