Mario con Chiara Ottaviano e Gianpaolo Fissore |
Per misurare la distanza siderale che
separa la scuola di cinquant’anni fa da quella di oggi è
sufficiente la riflessione su un tema, quello dell’ “educazione”,
che rimbalza in tutti i dibattiti ogni qualvolta fatti di attualità
tirano in ballo le “barbare” o “aliene” giovani generazioni.
A chi il compito dell’apparente impossibile “missione educativa”
di cui genitori e istituzione scolastica si rinfacciano
reciprocamente il fallimento, salvo essere entrambi confortarti
dall’onnipresenza “diseducativa” mediale e multimediale (prima
il diavolo era la tv, ora è internet)?
Per opposto non troviamo un solo cenno
alla parola “educazione” in Lettera a una professoressa
(1967), vangelo della più feconda rivoluzione culturale che abbia
attraversato la scuola italiana.
Il problema al tempo non si poneva.
E non solo perché lassù, a Barbiana, don Lorenzo Milani ai suoi
ragazzi aveva sempre qualcosa da “insegnare”senza dover ricorrere
a note o sospensioni, ma soprattutto perché l’istituzione
scolastica operava in un sistema di valori dove la figura
dell’insegnante, quand’anche incapace o mediocre, e sebbene non
godesse di un trattamento economico straordinariamente superiore a
quello di oggi, beneficiava di una buona dose di autorità e
prestigio. Anche troppo. Tant’è che Lettera a una professoressa
iniziava proprio con l’invito ai genitori a “organizzarsi”. Per
che cosa? Per non essere troppo riverenti e per saper chiedere il
conto agli insegnanti e alla scuola italiana, incapaci di assolvere
al mandato della Costituzione, cioè di garantire a tutti, anche agli
ultimi, il diritto all’istruzione.
I genitori. Coglieva nel segno don
Milani, tanto attento alla concretezza della didattica, quanto
preciso nell’individuare nella relazione tra scuola e famiglia il
rapporto di reciprocità a fondamento della missione educativa. Da
cancellare era a quel punto la figura di un padre che ancora si
recava dal maestro “deamicisianemente”
con il cappello in mano, a far ammenda per le mancanze del figlio, a
riceverne le disposizioni e a rigidamente applicarle.
Ma quale sarebbe oggi la reazione del
severissimo priore di Barbiana di fronte a quei genitori che
aggrediscono la professoressa, rea di aver sequestrato il cellulare
al figlio che ne fa disinvolto uso durante le lezioni o di averne
censurato il linguaggio un po’ troppo televisivo? O come
commenterebbe l’atteggiamento di quelle giovani insegnanti che si
fanno accompagnare
a scuola dagli attempati genitori
perché impaurite dal clima che vi si respira intorno?
Casi limite? Sembrerebbe di no. Sono
episodi di ordinaria, deprimente routine nelle scuole di frontiera,
quelle dove, nella più effervescente stagione della didattica si
precipitavano gli insegnanti più bravi, determinati a smontare sul
campo gli armamentari della scuola classista, e dove ora i “giovani”
insegnanti, con scarse opportunità di scelta e dopo interminabili
anticamere da “precari”, approdano già sfiniti. La relazione
educativa, ovvero quell’insieme di atteggiamenti, comportamenti,
ruoli, strategie e regole condivise all’interno dei quali prendono
forma l’insegnare e l’imparare, riflette il clima del tempo. A
chi don Milani rivolgerebbe oggi l’invito a organizzarsi per
migliorare la relazione educativa? Certamente sempre ai più deboli,
che oggi sono forse proprio gli insegnanti.
Regole da condividere
Mai come oggi la convivenza a scuola
risulta avere la febbre alta e il termometro per misurarla va
applicato soprattutto alla fascia dell’obbligo: dalla primaria alla
media, fino al biennio delle superiori. Sono gli anni in cui a scuola
ci vanno tutti e in cui la scuola avrebbe il dovere di offrire
a tutti le stesse opportunità, di
trattenere e non respingere. E sono anche gli anni in cui non solo i
ragazzi, ma soprattutto i genitori, sono chiamati a essere
interlocutori privilegiati ogniqualvolta entrano in gioco
l’educazione, il comportamento, la definizione delle regole e la
loro violazione. I genitori, e quando non ci sono, nei casi più
difficili, i servizi sociali.
L’ubiquità e l’onnipotenza del
cellulare (il videofonino come arma impropria), gli atti di
prepotenza verso le persone e le cose (il bullismo), il fumo (nel
senso di canne). Facile stilare una classifica delle questioni
all’ordine del giorno nel disordine scolastico. Pleonastico
classificare, per valutarne astrattamente l’efficacia, gli
strumenti disciplinari in uso, che poi, seppure ammorbiditi, sono a
ben vedere sempre gli stessi di una volta. Lascia il tempo che trova
il dibattito sul voto di condotta, espresso ancora in decimi nelle
scuole superiori e ripristinato nella scuola dell’obbligo dal
ministro Letizia Moratti sotto la voce “comportamento”, ma
comunque ininfluente per determinare la promozione finale. Il vero
problema (anche se può sembrare banale rammentarlo) è che le norme
sono tali ed efficaci solo se condivise e riconosciute legittime da
tutte le parti in campo. Nelle situazioni più avanzate c’è il
“Patto di Istituto”, redatto a inizio anno dal Consiglio di
Istituto
(che comprende anche una rappresentanza
di genitori) e sottoposto alle famiglie, chiamate a sottoscriverlo,
nero su bianco. Il principio è che l’educazione a scuola necessita
di patti chiari. Tra insegnanti e studenti. Ma soprattutto tra scuola
e famiglia. I genitori giudicano senza sconti la scuola – per
assioma oggi in deficit educativo – ma la scuola è il primo luogo
dove i genitori sono giudicati rispetto all’assolvimento della loro
funzione – e anche la famiglia è per assioma oggi in deficit
educativo. E gli insegnanti? Sono proprio tutti impreparati,
depressi, in disarmo, refrattari a ogni meccanismo che si proponga di
sottoporre a valutazione la loro funzione educativa?
Una figura fondamentale
Nel prete, nel sindacalista e nel
maestro don Milani individuava tre figure chiave della società del
suo tempo a cui attribuiva straordinari compiti e enormi
responsabilità. Senza entrare nel merito del peso attuale delle
prime due, quella del maestro, ovvero dell’insegnante, rischia
seriamente nel nuovo millennio il declassamento a controfigura. Non è
stata una decadenza repentina. Da tempo il corpo docente nella scuola
italiana si esercita (o convive) con l’utopia da una parte e la
frustrazione dall’altra. Gli insegnanti, di ogni ordine e grado,
vivono una crisi di ruolo, che viene da lontano e rispetto alla quale
hanno essi stessi non poche responsabilità. Ma per dare a ciascuno
il suo oggi la parte del leone nella liquidazione della scuola
pubblica la stanno facendo i governanti.
Don Milani, quando giudicava
l’istituzione scuola del suo tempo, usava il metro della
concretezza: dava i numeri, nel senso più letterale del termine, per
denunciarne i meccanismi di selezione classista, in stridente
contrasto con i dettami della Costituzione.
Oggi sempre di più, tra i tanti numeri
che non quadrano, ci sono quelli che riguardano gli insegnanti.
Quanti sono i tagli delle cattedre? Quanti sono i precari? Quanti
sono i giovani nuovi insegnanti a cui dovrebbe essere affidata
l’opportunità di aggiornare la didattica e di instaurare una più
feconda relazione educativa con le più giovani generazioni? Quanto
si investe su di loro, sulle loro aspettative e sulla loro
formazione? Quanto guadagnano?
I genitori italiani del nuovo millennio
non si presentano più con “il cappello in mano”, ma non sembrano
neanche in grado di pretendere, in quanto cittadini, che la scuola
non abdichi alle sue funzioni didattiche ed educative, dimenticando o
emarginando le risorse umane. Decisivo sarà che i “maestri”,
forse lasciati troppo soli, non si consegnino a quella strisciante
rassegnazione che per molti rischia di rendere sempre più
evanescente l’originaria missione educativa. Forse è necessario,
insieme alla rivendicazione sindacale, un po’ di orgoglio
professionale: come direbbe don Milani, la figura dell’insegnante è
fondamentale, e oggi non meno di ieri.
Gianpaolo Fissore
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