Alberto Tridente, il vecchio leone si è addormentato per
sempre, ma il suo esempio ed il suo ricordo rimarranno in noi come un’immagine
della sua anima che trasmette forza. Se n’è andato con un gran sospiro martedì
24 luglio alle 22.15 alla Clinica Pinna Pintor
VOLEVA
MUTARE LE COSE RISPETTANDO
LE PERSONE
Si preparava
all'avventura nella segreteria
nazionale e stava
per lasciare la guida
della Fim-Cisl torinese
ad Adriano Serafino. Era
il 1973 e il salone
“Pastore” di via
Barbaroux era un
lungo cunicolo di fumo
libero e obbligato.
Lo sentii parlare per
la prima volta e parlò del
senso dell'impegno sindacale.
Per quelle strane e
imprevedibili intercettazioni
della sensibilità, Alberto
mi fu subito famigliare
e maestro quando disse
che Cristo aveva esagerato
pretendendo che i suoi
apostoli
abbandonassero tutto – reti,
barca, pesci, casa – se
davvero volevano seguirlo
nella sua missione evangelizzatrice
dell'umanità. Nessuno mi
aveva ancora raccontato
un Cristo così ben
criticato. Meglio invece
chiedere a tutti
un impegno a misura
di uomo e di
donna. Meglio un'organizzazione
– non una caserma con
le sue gerarchie
e i suoi orridi
riti di iniziazione
– dove ciascuno potesse sentirsi
come a casa propria
perchè non esigeva l'eroismo
quotidiano dei suoi
aderenti per dare
loro ascolto, parola, potere
di contare. Meglio apprezzare
e valorizzare l'apporto
di ciascuno per poter
spronare anche chi
ti dà per ora
meno di mezzora al
cimento prolungato
del pensiero e dell'azione
collettiva. Mazzolari
avrebbe detto: noi ci impegniamo senza giudicare chi non si impegna, senza accusare chi non si impegna.
Alberto non si è risparmiato. Tuttavia, la generosità smisurata (mondiale!) del suo impegno era attraversata e nutrita da una continua ricerca di armonia fra i grandi cambiamenti chiesti al potere e i piccoli cambiamenti necessari per rendere migliore e più civile la vita quotidiana. Quando Cesare Delpiano se ne andò, Alberto scrisse che non voleva più vedere Carniti piangere, schiacciato dal dubbio di aver preteso troppo – tutto? - dai suoi dirigenti. Così singolarmente consapevole della drammatica contraddizione in cui un dirigente della sua autorevolezza era impigliato, Alberto seppe percorrere senza strafottenza i sentieri della temporanea incomprensione, ai confini con l'impopolarità. Ma non trasformò mai questa condizione in isolamento compiaciuto e aristocratico perchè voleva mutare le cose rispettando le persone. Seppe essere minoranza combattiva, ma non smarrì mai la ricerca dell'unità. E non la diluì in uno stanco esercizio diplomatico, sia nelle Parrocchie refrattarie al travaso nel movimento sindacale dei giovani di Azione cattolica, sia nella Cisl ostile all'apertura unitaria e all'innovazione autonomistica, sia nella Dc rocciosamente gelosa della sua identità anticomunista.
Quello della contaminazione con i comunisti italiani e con i marxismi, poi, fu un grande gioco appassionante e creativo al quale partecipò con respiro europeo e sguardo mondiale senza pretendere l'ultima parola. A chi gli diceva: “sei onesto anche se non sei comunista”, non contrapponeva l'ottuso clichet: “sei onesto, anche se sei comunista”.
La moderazione del suo linguaggio era per me affascinante, proprio perchè la trovavo sempre associata a contenuti incisivi e argomentati con il rigore di chi sa di dover prima di tutto rispettare le tesi non condivise dei propri interlocutori. Perciò, come pochi della sua generazione, aveva amicizie tenaci in tutte le famiglie politiche e sindacali, dove spesso le aspirazioni alla visibilità e alla carriera inducono colpi bassi e duri.
Il suo entusiasmo era contagioso e ragionato. Non ho mai visto un leader sindacale così fraternamente pronto all'abbraccio e così spontaneamente abbracciato da chi lo incontrava.
Un abbraccio, caro Alberto. E grazie.
Mario Dellacqua