Bruciare valore non conviene a nessuno
di Mario Ruggieri
Per
venire incontro alla sempre maggior richiesta di energia, la nostra società ,
tenuto conto che il petrolio è un bene limitato e ad alto potere inquinante,
utilizza le moderne tecnologie per avere fonti alternative a cui attingere. Il
biogas, prodotto dalla fermentazione del mais, seppur con apporti
quantitativamente modesti, è una di queste fonti.
L’imprenditore
agricolo può decidere la costruzione di un
proprio impianto e destinare ad esso una parte residuale della propria
produzione di mais. In questo caso, la logica prevalente è di assicurare la piena
autonomia energetica alla propria azienda.
Più
imprenditori agricoli possono associarsi e costruire un impianto di grandi
dimensioni allo scopo di vendere allo stato l’energia elettrica prodotta. In
questo caso l’apporto di mais che dovranno conferire sarà la parte predominante
della propria produzione.
Nella
cooperativa i soci sostengono un importante sforzo finanziario iniziale per la
costruzione dell’impianto ma, in contropartita, ottengono un contratto di
vendita dell’energia allo stato. Tale
soluzione permette loro di non avere
problemi di collocamento della produzione di mais e predeterminare il ricavo
dalla vendita dell’energia elettrica prodotta. La buona valenza economica
dell’operazione risiede negli incentivi statali che prevedono un prezzo
dell’energia triplo rispetto a quello di mercato.
In
pratica escono dal mercato del mais ed entrano in un’attività industriale a rischio proprio ma per conto dello stato.
Quali le prospettive e le condizioni del
mercato che si abbandona ?
I dati evidenziano un incremento del valore del
mais, quasi costante negli ultimi sei
anni, fino al raddoppio delle quotazioni. E’ altresì utile, per un corretto
esame previsionale, richiamare l’analisi recente della FAO: “ Nel prossimo decennio i prezzi dei
prodotti di base agricoli rimarranno sostenuti, trainati da una domanda forte e
stabile ma in presenza di una crescita rallentata della produzione globale. La
domanda è motivata da redditi pro-capite più alti, dall'urbanizzazione
crescente, dal cambiamento della dieta nei paesi in via di sviluppo e dall'aumento
del fabbisogno di materie prime alimentari per l'industria dei combustibili. (Oltre
il 40% del mais dei maggiori produttori USA finisce nelle raffinerie di etanolo
per diventare biocarburante) “
Restringendo
il campo al nostro fabbisogno nazionale
di mais, uno studio dell’Istituto Nomisma conferma detta previsione: “
l’utilizzo no food che ne viene fatto fa crescere a 3,4 milioni di tonnellate
annue la necessità di doverlo importare dall’estero con un incremento del 233%
rispetto alla media import del periodo 2001/2006 “.
In
estrema sintesi un mercato commercialmente valido, con solide prospettive a
medio e lungo termine, meritorio di una migliore/maggiore permanenza da parte
dei suoi operatori. Un mercato che potrebbe generare un grosso paradosso: premiando
oltre misura chi ci ha creduto rispetto a chi ha distolto la propria produzione
verso “la speculazione” delle rinnovabili.
Quali
possono essere i rischi di mettere alla “diretta dipendenza” dello stato i
ricavi della propria attività. Senz’altro il cambiamento di indirizzo politico
dettato dalla profonda crisi economica e dalle radicali mutazioni
socio/economiche in atto.
Le grandi istituzioni internazionali
- dall' Onu, alla Fao, al Fondo monetario, alla Banca mondiale - insistono da
mesi perché Usa ed Europa rinuncino agli obiettivi prefissati di produzione di
biocarburanti che, in periodi di tensione, alleggeriscono il prezzo del pieno
di benzina, ma aggravano lo scontrino del supermercato..
Anche in Italia si è di recente
“rimodulato” gli incentivi alla produzione delle rinnovabili, seppur non in
maniera drastica come era obiettivo del governo. Hanno pesato le forti
resistenze della Confindustria, della Marcegaglia in particolare per un suo
interesse diretto. Per contro,i nuovi rappresentanti degli industriali, proprio in questi giorni , hanno chiesto al governo una politica di sgravi fiscali
piuttosto che i contributi a singoli settori.
Nulla vieta quindi, che nell’ottica di
spending review, lo stato decida quindi di non più pagare il triplo del suo
valore l’energia rinnovabile. A maggior ragione se si considera che tale tipo
di produzione non sarà mai autonoma dagli incentivi statali e, nel caso
specifico del mais/biogas, ha come effetto collaterale l’aumento del costo di
beni alimentari di prima necessità. Le future politiche economiche sembrano
inevitabilmente indirizzate a rivalutare il saggio e prudenziale concetto di
ottenere, in primis, la maggiore produzione attraverso il minor consumo e, con
esso, il rilancio di tutto l’indotto collegato alle ristrutturazioni.
In questo caso chi è entrato nel
mercato delle rinnovabili deve sperare che lo stato mantenga gli impegni
pregressi. In passato non avremmo avuto dubbi in proposito ma, di recente, e
sempre più con l’aggravarsi della crisi, gli effetti retroattivi di talune
decisioni hanno messo a dura prova tale radicata convinzione.
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