L’icona della crisi
finanziaria che sta attraversando l’intero sistema mondiale
potrebbe essere la balena/banca arenata in una spiaggia.
Con un rapido viaggio, di
collodiana memoria, proviamo ad analizzare ciò che ha comportato per
il cetaceo la perdita della rotta.
Se quello in corso è un
terremoto, il primo epicentro è senza dubbio l’America, in
particolare le Banche americane d’affari.
Trattasi di banche che
non svolgono direttamente la classica attività di raccolta e
d'impieghi con una loro clientela privata. Esse sono intermediarie o
direttamente controparte di altre istituzioni finanziare. Questo
spiega come le vicissitudini di una banca d’affari possano
provocare difficoltà su tutta una serie di altre banche. Se poi
consideriamo che la crisi ha interessato le maggiori, possiamo
cominciare ad avere un’idea della lunghezza e dell’intreccio
della curva del sisma.
Consideriamo anche il
contesto in cui operavano queste banche. I responsabili della
politica degli USA hanno sostenuto l’economia del proprio paese
immettendo nei mercati ingente liquidità a basso costo. La filosofia
di base era di far si che la gente comprasse grazie alla facilità
con cui poteva ottenere dei prestiti. In particolare il finanziamento
dell’acquisto degli immobili ha dato ampie concessioni anche a
soggetti che per la loro situazione finanziaria non avevano adeguate
garanzie per il rimborso del debito. L’inflazione, l’aumento dei
prezzi e l’incremento della disoccupazione hanno determinato
l’impossibilità per una vasta fascia dei debitori a far fronte al
proprio debito, scoprendo presto la pericolosità di tale
impostazione economica. Le banche, pur garantite dal valore
dell’immobile, hanno avuto gravi perdite, infatti tale valore è
sensibilmente diminuito perché, pignorando e vendendo, hanno creato
esse stesse le condizioni per la diminuzione del valore.
Fin qui sembrerebbe un
problema tutto americano, ma come spesso avviene con la moderna
“finanza strutturata”, quel debito concesso assumendosi grossi
rischi è stato ceduto e acquistato da terzi (es. Cirio, Parmalat e
Bond Argentina). Nel moderno sistema globalizzato i terzi in
questione può essere tutto il resto del mondo, ivi compresi ognuno
di noi, qualora avessimo affidato il nostro risparmio a un gestore
che a sua volta avesse ritenuto conveniente l’acquisto di questa
tipologia di titoli, senz’altro remunerativi, ma con rischi
altissimi.
Nel mondo della finanza
c’è una regola prima e universale che dice: “Il guadagno che ti
devi aspettare domani sarà sempre in proporzione al rischio che ti
assumi oggi”. Viene da chiedersi come mai professionisti del
settore abbiamo disatteso una regola lapalissiana. Fondamentalmente
per due motivi: il primo perché gestiscono capitali non propri ma
dei risparmiatori, quindi il rischio grava su questi ultimi, il
secondo perché vengono giudicati dal mercato con una logica non a
media o lunga scadenza, bensì dettata dalla necessità di creare
valore trimestre per trimestre secondo il calendario di borsa. I
gestori dei fondi in un certo senso possono essere vittime e
carnefici allo stesso momento. Come avviene per i grandi calciatori,
i più nascono e spariscono in breve tempo, ne arrivano sempre di
nuovi e sempre più giovani e rampanti ad alimentare un mercato dove
i migliori si vendono a caro prezzo ed i mediocri cercano di
riciclarsi.
La velocità dei moderni
mezzi di comunicazione è fattore di estrema importanza per lo
sviluppo dei mercati. Se nel circuito sono immessi dei titoli
definiti “tossici”, prende piede la paura dell’epidemia (la
stessa logica dell’influenza suina). Ogni banca verifica se è
interessata dal problema e in che misura. Subito dopo si chiede
quanto lo possano essere le altre banche sue controparti. Nasce una
sindrome di auto protezione che blocca il mercato dei rapporti
interbancari e produce un aumento del costo dei pochi scambi che
vengono effettuati. A calmierare il mercato intervengono le banche
centrali e i governi. Le banche centrali finanziando direttamente a
un tasso di riferimento molto basso il sistema che altrimenti
risulterebbe paralizzato. Il governo come nel caso nostro, mette a
disposizione delle banche finanziamenti non a fondo perduto ma con
l’impegno di restituzione e pagamento d’interessi (Tremonti
Bond). Alla prova dei fatti le banche hanno disertato l’offerta del
governo sia perché nettamente meno favorevole di quella della banca
centrale sia per non dover subire quella che veniva considerata
un’invasione di campo del sistema pubblico verso il privato, a
maggior ragione se sotto la minaccia di ridimensionare i lauti
compensi dei loro dirigenti.
Quali i riflessi di tale
situazione.
Il governo si dice
salvatore delle banche per aver messo a disposizione i finanziamenti
necessari alla saldezza della loro struttura. In effetti però ha
dovuto spendere poco o niente.
Insomma uno spot a buon
mercato.
Le banche più che a
finanziare l’economia sono tornate alla finanza, prova ne sia
l’andamento positivo delle borse. Risulta così quanto mai bugiardo
l’assioma ripresa delle borse uguale ripresa dell’economia. In
effetti la gran parte della gente è passata dall’angoscia di
vedere il proprio debito a tasso variabile lievitare quando i tassi
salivano, all’impossibilità di usufruire dei costi bassi attuali
perché se non ha perso il lavoro, vive l’incubo della cassa
integrazione.
La balena si è adagiata
sempre sullo stesso fianco.
Adesso possiamo
comprendere perché:
- Il cliente depositante della banca subisce un continuo input a migrare dai titoli di stato o dalle azioni (forme d’investimento per le quali la banca percepisce solo una commissione all’atto della sottoscrizione senza avere la gestione diretta delle somme) verso il risparmio gestito (fondi d’investimento) o prodotti previdenziali assicurativi.
Nella stragrande
maggioranza dei casi le società che gestiscono i fondi e le società
assicurative che fabbricano e gestiscono questi prodotti sono
interamente o in larga parte delle banche stesse. L’operatività
avviene in chiaro conflitto d’interessi, peraltro comunicato al
cliente e da questi sottoscritto, ma non sempre compreso.
Questo intimo
collegamento tra società di gestione e banche fa si che il gestore
sviluppi le sue strategie, quando gli è possibile, anche acquistando
titoli della stessa banca di riferimento. Vi sono stati dei casi in
cui detti titoli, non avevano immediati brillanti prospettive e la
banca se ne liberava vendendoli ai propri clienti o meglio al fondo
da loro sottoscritto.
E’ noto che la Banca
d’Italia è favorevole a tagliare questo cordone ombelicale e
romperne il conflitto d’interessi ma le banche, a oggi, come si è
solito dire “ hanno fatto orecchie da mercante”.
Il risparmiatore esce da
un regime di fai da te e si affida a professionisti.
Il risparmiatore perde
nel dettaglio il contatto diretto con il suo investimento.
Il risparmiatore più
prudente può scoprire posizioni di rischio da lui non comprese e
certamente non condivise ma che lo coinvolgono in quanto partecipante
a un fondo d’investimento.
I prodotti
assicurativi/previdenziali sono detti tali unicamente in quanto alla
scadenza prevedono l’eventuale scelta di una rendita. In passato
hanno beneficiato di migliore fiscalità grazie a questo status. In
effetti, sono delle costruzioni finanziarie collegate all’andamento
dei fondi sottostanti o degli indici mercato.
A fronte di un primo buon
guadagno, vincolano la futura redditività a una scommessa, con tutti
i rischi che la cosa comporta. Perché sono tanto sollecitati dalle
banche? Perché loro hanno un forte guadagno commissionale iniziale e
gli assicura di lavorare sul mercato finanziario senza rischio
diretto con i capitali del cliente.
Quanti lavoratori hanno
capito che mettendo il loro TFR in un fondo abbandonavano la
sicurezza di un rendimento minimo ma sicuro ed entravano in un
sistema aleatorio? Per assicurarsi una pensione tranquilla ci
vorrebbero ben altri capitali e tanta, tanta fortuna. Unico risultato
sicuro delle nuove disposizioni sul TFR e la previdenza
complementare: un grosso flusso di capitali immesso nelle borse
valori.
Quanti Comuni, Province e
Regioni, tra le pieghe dei loro bilanci, hanno esposizioni rilevanti
in prodotti “derivati” fondati su scommesse future. Consiglieri e
sindaci sono stati allettati dal fatto che, la controparte con la
quale hanno stipulato la scommessa, ha pagato loro una cifra iniziale
(utile a sanare subito il bilancio dell’ente), senza riflettere,
anche solo in maniera empirica, che in futuro, chi è disposto a
pagare oggi, è molto probabile che capitalizzerà ampiamente quanto
ha anticipato.
Pochissimi o forse
nessuno degli interlocutori delle banche era in grado di comprendere
veramente i meccanismi sottostanti ai prodotti negoziati. Tantissime
le perdite già dichiarate da pubblici amministratori e probabilmente
esse rappresentano solo la punta di un iceberg non ancora emerso
nella sua interezza.
Ora i tribunali sono
chiamati a decidere sui ricorsi di tali Enti che, per bloccare le
pesanti perdite delle operazioni da loro sottoscritte, ammettono di
aver agito da incompetenti.
Per contro è pur vero
che le banche italiane, nell’ambito della grande crisi finanziaria
in corso, sono le meno esposte. Quella vecchia battuta che diceva che
da noi le banche danno i soldi a chi dimostra di non averne bisogno,
era un’accusa di burocratica rigidità nelle concessioni di
finanziamenti, ora è una stampella di parziale tranquillità per il
nostro sistema domestico.
Se gli italiani hanno un
debito medio meno del doppio del loro reddito mentre gli americani ne
hanno il quadruplo, bisogna dar atto a chi ha gestito il rischio
(quantomeno proprio) del credito verso il cliente privato di un
atteggiamento giustamente prudenziale e all’italiano medio di aver
confermato una grossissima propensione al risparmio che ci pone in
testa alle classifiche mondiali. Questa è la vera riserva sociale su
cui si regge il sistema in questo momento. Stiamo attingendo a
quelle riserve di grasso che il nucleo familiare allargato a
genitori, nonni, zii mette a disposizione per fronteggiare
l’emergenza.
In presenza di una crisi
profonda del sistema, rassicurato il mercato e i risparmiatori,
ristrutturato il sistema stesso da un punto di vista economico
occorre stabilire nuove regole. Il problema principale sarà quello
di riuscirle a fare, considerato il forte contrasto in tal senso dei
centri di potere e di interessi.
Come fa uno Stato a dar
nuove regole ad Istituzioni che hanno assunto una dimensione tale che
minacciando la bancarotta determinerebbero il fallimento dello Stato
stesso?
E’ caduto il muro del
comunismo, ma quante impalcature necessitano a sostegno del
capitalismo in attesa della terza via.
Allo stato attuale
nessuno l’ha saputo trovare anche se la strada è piena di cartelli
che la indicano:
- Non è la quantità delle regole che ne determina l’efficacia bensì l’applicazione.
- Un mercato può essere libero ma non nell’applicazione delle regole.
- La politica che lascia correre il mercato, essa stessa ne è travolta.
- Una politica senza etica non è in grado di dare regole di etica.
- Non può esistere un conflitto d’interessi tra il controllore e il controllato.
- Il problema del singolo paese, in regime di globalizzazione, diventa il problema di tutti.
- La ricchezza è fatta di beni reali e non di costruzioni finanziarie.
- La vera ricchezza non è quanto abbiamo oggi sulla carta, ma quanto avremo anche domani e potrà condizionare positivamente il nostro futuro.
Mario Ruggieri
29 gennaio 2010
filciop@libero.it
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