L'ho letto prendendo qualche volta la testa tra le mani, come a
proteggermi da un peso schiacciante.
L'ultimo libro di Michele Serra è (o
sembra) l'apocalittica confessione dello stato di disperata impotenza nella
quale la generazione dei 50-60enni si trova gettata al cospetto dei suoi figli.
Anatomia di un fallimento?
Avevamo voltato le spalle la guerra, mal sopportata anche nella sua più
accettabile versione “fredda” e siamo corsi alla conquista del futuro con
spirito ribelle. Crescita senza limiti, produzione di ricchezza e accesso ai
consumi, modernizzazione democratica o addirittura rivoluzione sembravano a
portata di mano.
Dopo una palingenesi tentata e rifluita nel gioco eterno del conflitto
generazionale, o riassorbita dai muri di gomma delle riforme incompiute o,
peggio ancora, precipitata nella tragedia delle minoranze armate, gli splendidi
sessantenni si sorprendono impaludati nella nostalgia dei tempi in cui si stava
meglio perchè si stava peggio.
E
per forza. I loro figli o nipoti sono stati rapiti dai tatuaggi, dagli
auricolari e dalla civiltà elettronica. Mangiano wurstel usciti dalla
discoteca alle sei di mattina. La domenica pomeriggio il loro oratorio è il
frastuono luccicante del grande centro commerciale dove il consumo è la più
alta e gioiosa manifestazione di vitalità. Ignorano con un gesto delle spalle i
modelli positivi proposti dal genitore volenteroso e dialogante. Tra il
giorno d'oggi e i nostri tempi la lotta ha un vincente
predestinato dagli stereotipi. Impigliato, naturalmente a sua insaputa, nel
regime della coazione a ripetere, il sessantenne va come contro un carro armato
con l'accetta.
Proponi
al giovanotto di salire con te al Colle della Nasca dopo sei ore di marcia e
sudore per assaporare la gioia della conquista. Lo supplichi. Lo lusinghi, lo
adeschi, lo minacci. Niente. Lo porti in Langa a vendemmiare per condividere
con lui la poesia della terra e della vigna e lui niente. Si alza alle dieci, “luminoso
e distratto”, pallido e assorto, anzi assortito, anzi assente. E' irretito
nelle maglie del narcisismo che sacralizza il fascino del corpo, “tabernacolo
dell'Io”. Scoprirlo diverso è uno choc. E io sono immerso fino al collo
nel traumatico spaesamento.
D'altra
parte, quando Luigi Macario andò in America, non si limitò a capire perchè
Mussolini avrebbe perso la guerra, ma fece un incontro illuminante. Un
sindacalista gli spiegò di stare attento perchè le trasformazioni produttive in
arrivo nei successivi venticinque anni sarebbero state più gigantesche di tutte
quelle intervenute dal Neolitico in poi. E tanta incisività poteva risparmiare
i comportamenti sociali, le configurazioni antropologiche, le abitudini, le
coscienze, gli immaginari?
Non
esagerava, il facile profeta. Macario fiutò nell'aria una possibilità di
progresso civile. Non era solo. Si mise d'accordo con Carniti, Benvenuto, Lama
e Trentin per archiviare finanche i cascami sindacali della guerra fredda. E
cercò a Mirafiori il punto archimedico su cui far leva per sollevare il mondo.
A Torino ne facemmo e vedemmo di tutti i colori. In parallelo con il “comunismo
sindacale” di Sergio Garavini, nacque una specie ambiziosa di
contrattualismo metalmeccanico con Adriano Serafino. Non ci facemmo mancare
l'additivo sprovincializzante dell'internazionalismo tridentino (quello di
Alberto Tridente). Nel loro laboratorio, Cesare Delpiano e Gianni Alasia
convocarono tutti gli ingredienti e poi li fusero in progetti di riforma degli
ospedali, della scuola, del carcere, delle tariffe elettriche, del manicomio e
del Mezzogiorno. Franco Bentivogli fece in tempo a chiedere a Mandelli il
diritto degli operai di suonare il clavicembalo con i soldi delle imprese. Poi la leva non sopportò il peso e si ruppe.
La grande quercia dello sviluppo ininterrotto crollò senza clamore e senza
preavviso. Ma potevamo inceppare il motore e contemporaneamente pretendere che
continuasse a girare a pieno ritmo?
Arriviamo
al dunque. Non è vero che non sappiamo che cosa raccontare ai ragazzi, anche se
può capitare che chi gli fa i tatuaggi ci suggerisca di dialogare di più con
loro. Per esempio, basterebbe raccontargli alla pari la storia del nostro
esperimento fallito. E' questo che ci brucia la pelle, ma “rimossa ogni
menzogna, tutta tua vision fa manifesta e
lascia pur grattar dov'è la rogna”, come scrisse non il Sindaco, ma il
priore di Firenze. Non ci dobbiamo vergognare, perché ci siamo sentiti in
dovere di provare.
E
poi anche Kafka chiedeva a suo padre di farla finita con i toni “di vanteria
e di litigio” che i vecchi sfoderano come per puntare sui giovani una
pistola alla tempia, dominati a loro insaputa (quando va bene) dalle solite
pulsioni autoassolutorie e vendicative.
Chi
sono davvero gli sdraiati, altrimenti detti bamboccioni o
schizzinosi? Non facciamo i soliti prepotenti. Prima di dare lezioni
dispregiative con l'obiettivo mal celato di dimostrare che noi eravamo
incomparabilmente più in gamba, dovremmo avere la pazienza di aspettare che la
loro stagione si dispieghi per intero.
La
legge della vita ci condanna ad avere fiducia. Un giorno o l'altro, con i
nostri schemi sbriciolati, potremmo sempre scoprirli mille metri più avanti o
più in alto.
Mario
Dellacqua
MICHELE SERRA, Gli sdraiati, Feltrinelli, 2013.
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