Ho
seguito e provato a capire cosa è successo in Congo alle 26 famiglie italiane.
Mi è tornata alla mente quella scritta che campeggiava in tutte le botteghe
negli anni passati: “per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno”. Temo
che qualche porcheria sotto specie di pratica adottiva abbia infangato tutto,
ma non capisco neanche quelli che a partire da questa vicenda rispolverano il
fatidico: “non dovrà più accadere”, oppure “dobbiamo riformare la
legge”.
Intanto,
è vergognoso che le notizie sulle famiglie italiane in Congo vengano
accompagnate da immagini di grande miseria e povertà che pure esistono. Ma
allora, visto che da quelle parti c’è una sede Rai e un inviato, Enzo Nucci,
perché non gli si chiede una adeguata e corretta informazione magari accompagnata
con immagini reali?
Kinshasa, la capitale del Congo, dove attualmente ci sono
le famiglie italiane, è una città con standard internazionali. Il Congo è uno
dei paesi africani maggiormente rapinato dall’occidente: il Coltan, minerale
usato per i nostri computer e telefonini arriva da lì.
Ma
torniamo alla triste vicenda congolese, e proviamo a capire come si è giunti a
questo livello. L’adozione internazionale è stata in Italia come una gustosa
ciambella al centro di tante voracità. Oggi ci rimane il buco, e in questo buco
cadranno i bambini negati dei loro diritti, ma anche le tante persone per bene
che però non hanno fatto abbastanza per evitare che ciò accadesse.
Con
la legge 476 del 1998, si metteva fine al cosiddetto fai da te: coppie che
ricevevano un decreto di idoneità e poi da sole si mettevano in viaggio
all’estero alla ricerca di un bambino da adottare (tramite missionari o anche
faccendieri). Ma già allora, e anche da molto prima, esistevano associazioni di
volontariato che senza fini di lucro dedicavano con passione il proprio tempo
ad aiutare le famiglie impegnate a realizzare il proprio progetto: accogliere
nel proprio ambito familiare un bimbo in assoluto stato di abbandono
proveniente non solo da un paese del sud del mondo. Fino a venti anni fa sono
arrivati in Italia bambini provenienti dagli Stati Uniti.
La
legge 476, riconosciuta da tutti come la più efficace a regolare il percorso
adottivo, ha cominciato da subito a subire le prevedibili incursioni per
allargarne l’interpretazione. Così siamo giunti dai dieci iniziali enti
autorizzati, ai circa settanta attuali. Si è passati dallo spirito iniziale
della legge che puntava a una famiglia per ogni bambino, a un bambino per ogni
famiglia e ancora adesso tanti tra gli addetti ai lavori non comprendono la
differenza sostanziale. L’adozione diventava rimedio alla sterilità: in questo
paese in eterno conflitto sui diritti civili, gli enti che nascevano trovavano
facilmente appoggio in gruppi politici e questa diventava una garanzia per il loro
prosieguo. Con la legge 476 era sorta la CAI (Commissione per le Adozioni
Internazionali), rappresentata da una decina di ministeri: il suo presidente
cambiava con la stessa tempistica con cui si sono alternati in questo ventennio
i governi italiani. In questo caos anche le migliori leggi cedono.
Ma,
insomma, servono davvero una ventina di enti italiani autorizzati all’adozione
internazionale nella potente e antidemocratica federazione Russa? Aggiungete
che poi nello stesso paese operano anche enti di tutti gli altri paesi europei
e nord americani. Questo stesso ragionamento è estendibile anche all’Ucraina o
Etiopia oppure Congo. Soprattutto, tutti questi enti operano nell’esclusivo
interesse dei bambini? Si adoperano per prevenire nuovi abbandoni? Quali controlli
vengono effettuati sui contributi che gli stessi ricevono dalla CAI? Sono tutti
mirati a prevenire gli abbandoni e a migliorare la condizione di chi vive in
quei luoghi o una parte serve a rafforzare il legame tra ente autorizzato e
istituto che dà poi bambini in adozione?
La
mia sincera preoccupazione è che anche su questo aspetto di vita funzioni la
metafora che ho utilizzato in precedenza: i furbi si sono mangiati la ciambella
e gli onesti si tengono il buco.
L’adozione
internazionale, rimane per me un’esperienza di grande valore. Non è un
surrogato per coprire vuoti. La sua difesa è un sostegno alla promozione dei
diritti dell’infanzia, ma anche un finestra sul mondo, quello della giustizia,
della solidarietà, della dignità.
Io
da genitore adottivo ho messo a disposizione il mio essere. Quello che ne ho
ricevuto è decisamente superiore e non sono disposto a mediarlo con i tanti
cialtroni sempre presenti per trarre vantaggi dalle sofferenze altrui.
Sono
molto vicino alle famiglie oggi bloccate in Congo. Capisco la loro sofferenza.
Le emozioni e le passioni che stanno vivendo oggi sono cominciate alcuni anni
fa. In questi giorni si sono materializzate e resteranno indelebili per tutta
la vita. L’incontro con il bambino/a, rimane uno dei momenti più belli. Lì si
sono sciolti ghiacciai. La caparbietà con cui hanno costruito questo cammino
dovrà essere ancora richiamata per superare questi difficili momenti. Perché
poi bisognerà pensare al futuro.
Beppe Amato
Nessun commento:
Posta un commento